Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  gennaio 13 Mercoledì calendario

Secondo i giudici europei si può licenziare il dipendente che usa l’email aziendale per comunicazioni private

Se il messaggio non era arrivato chiaro con il dibattito relativo alle nuove norme sulla privacy introdotte in Italia con il Jobs Act lo sarà ora: per la Corte europea dei diritti dell’uomo l’azienda può controllare le comunicazioni private dei propri dipendenti se sono inviate con strumenti aziendali. E licenziarli per il solo fatto di averlo fatto, senza che si debba dimostrare un danno effettivo all’azienda se non quello di «avere perso tempo durante l’orario di lavoro».
Tema spinosissimo e magmatico destinato a fare discutere, anche perché appare controdeduttivo se confrontato con l’articolo 8 della Convenzione dei diritti dell’uomo (diritto al rispetto della vita familiare e privata) su cui la sentenza si è concentrata.
Il caso 61496/08 era stato sollevato a Strasburgo da un ingegnere romeno, Bogdan Mihai Barbulescu, licenziato nel 2008 per avere usato dal 1 agosto del 2004 al 6 agosto del 2007 l’account aziendale di messaggistica Yahoo per comunicare con la fidanzata e con il fratello. Tutto qui? Sì, tutto qui. Non sono state trasmesse informazioni delicate né dannose: la contestazione è che non si concentrava sul lavoro. Risultato: fired. È per questo motivo che la sentenza segna un salto di qualità nel dibattito sulla privacy.
La decisione è stata presa dalla quarta sezione della Corte di Strasburgo il 1 dicembre del 2015, con sei voti a favore contro uno, ma soltanto ieri sono arrivate le motivazioni secondo le quali le decisioni dei tribunali di Bucarest non erano «né manifestamente infondate né inammissibili». La sentenza è importante anche perché di direzione opposta rispetto ad altri famosi casi come quello di Halford contro la Gran Bretagna e quello di Coplant sempre contro sua Maestà la regina Elisabetta (Echr 2007-I). In ambedue i precedenti Strasburgo aveva rilevato che l’utilizzo di strumenti aziendali come il telefono era «permesso o perlomeno tollerato», mentre qui l’azienda era stata chiara nel suo essere intollerante.
Sulla difesa dell’articolo 8 poi la Corte europea ha rilevato solo che il diritto alla privacy dell’ingegnere romeno è salvo perché il contenuto dei messaggi non è stato utilizzato per giustificare il licenziamento. Siamo sul filo del dibattito leguleio, ma il senso è chiaro: l’azienda ha il diritto di accendere l’occhio del Grande fratello. «Probabilmente queste sentenze – commenta Giampiero Falasca, responsabile del dipartimento del lavoro per lo studio legale Dla Piper – vanno lette al contrario: quando dicono che non è illegittimo non dicono che è doveroso. In poche parole se l’azienda non avesse licenziato l’ingegnere la sentenza non sarebbe cambiata. In ogni caso va sottolineato che nel nostro ordinamento un caso simile non reggerebbe. È illecito senz’altro l’utilizzo di strumenti aziendali per comunicazioni personali, come sancito anche dal recente Jobs Act, ma l’azienda può applicare delle sanzioni e dei richiami invece del licenziamento: in Italia forse non ci sarebbe la giusta causa, a meno di non dimostrare l’inadempimento del dipendente».
Certo è che l’ubiquità degli strumenti aziendali e l’elasticità del concetto di orario di lavoro rende non facile considerare chiuso il dibattito sulla nostra privacy: un messaggio inviato da un iPad aziendale alle 20 di sera, per esempio, è considerato un intralcio al lavoro?