il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2016
Undici sindacati per duemila dipendenti. Così si bloccano i tagli al Parlamento
Il numero delle sigle sindacali in Parlamento rappresenta un piccolo record. Undici alla Camera e quattordici al Senato, su un totale di 2.077 dipendenti (1.277 a Montecitorio). In pratica un sindacato ogni 83 persone. Con organizzazioni che vivono solo nel Palazzo.
A parte Cgil, Cisl e Uil – tutte presenti – le altre sigle sono sconosciute ai più. Il Sindacato autonomo, per esempio, il più forte, vanta 250 iscritti solo alla Camera. Tallonato dall’Osa (Organizzazione sindacale autonoma), che invece è quello più strutturato. Poi ci sono quelli di categoria: il Sindacato Professionalità Intermedie, il Sindacato Unitario Impiegati Parlamentari, il Sindacato Quadri Parlamentari, l’Associazione dei Consiglieri della Camera, l’Associazione Sindacale Parlamentare, l’Indipendente e Libero Sindacato. Nomi che tornano allo stato gassoso appena si mette piede fuori dal portone di Montecitorio.
Ma tant’è. Questo mare magnum di sigle è in lotta da due anni contro i tagli agli stipendi imposti dalla delibera del settembre 2014 che ha previsto, a partire dal primo gennaio 2015, il famoso tetto di 240 mila euro ai dipendenti della PA. A differenza delle altre categorie, però, qui la cifra è al netto degli oneri previdenziali (che per un consigliere possono arrivare fino a 42 mila euro l’anno), un piccolo privilegio di casta mantenuto alla faccia della spending review. Il problema, però, si è posto con i sottotetti. Stabilendo un tetto unico, infatti, c’era il rischio che un documentarista anziano arrivasse a guadagnare come un consigliere, che sta al V livello, il più alto. Così sono stati decisi degli ulteriori scalini: 99 mila euro per operatori e assistenti, 106 mila per collaboratori tecnici, 115 mila per i segretari parlamentari, 166 mila per documentaristi. E naturalmente i consiglieri, sotto i 240 mila. Per tutti quelli al di sopra sono così scattati i tagli, in quattro anni, con scaglioni crescenti.
Da qui è partita una battaglia, con tutte le sigle e siglette sindacali sul piede di guerra. E una serie di ricorsi avviati dai dipendenti che si sono visti decurtata la busta paga. Il 23 dicembre scorso, però, la Corte d’Appello interna di Montecitorio ha confermato la validità della decisione dell’Ufficio di presidenza, rigettando i ricorsi. Così oggi un barbiere della Camera non può guadagnare più di 99 mila euro l’anno, contro i 160 di prima. E forse sarà proprio la barberia la prima a rimetterci, visto che probabilmente verrà chiusa: costa troppo e non incassa abbastanza.
Complessivamente i tagli alla Camera porteranno a un risparmio di 65 milioni annui. Altri 2 milioni arriveranno dalla proroga anche per il 2016 del blocco di alcuni aumenti automatici per stipendi e indennità. Così la spesa totale per i dipendenti si può quantificare in 240 milioni annui, più 266 per le pensioni agli ex funzionari. I sindacati, dicevamo, annunciano battaglia. Anche se la notizia di uno sciopero bianco con lavori rallentati e niente straordinari è stata smentita. “È una sciocchezza assoluta. Noi siamo qui per far funzionare il Parlamento e non per bloccarlo. Lavoriamo tanto e nell’ombra. Spesso facendo le ore piccole, come è accaduto il 19 dicembre con la legge di Stabilità”, racconta un rappresentante di un sindacato confederale.
Insomma, nessuno sciopero, ma lo stato di agitazione rimane. Ma “produce effetti unicamente sullo stato delle relazioni sindacali”, si legge in una lettera di Cgil, Cisl, Uil, Osa e Spi spedita al Messaggero, che aveva dato la notizia dello sciopero. Detto questo, però, i sindacati chiedono la riapertura della contrattazione. “Siamo disponibili alla riduzione delle retribuzioni a patto che non sia una decisione imposta in modo unilaterale, ma il frutto di una trattativa sindacale con la controparte. Contestiamo la validità di una decisione in cui non ci è stato concesso alcun margine di trattativa”, continua il rappresentante del sindacato confederale.
Difficile, però, che si possa tornare indietro sui tagli. Anche perché la loro battaglia è impopolare, vengono considerati dei privilegiati e nessun partito è disposto a metterci la faccia per difenderli. Intanto questa sera i Cap (Comitato per gli affari del personale) di Camera e Senato, guidati da Marina Sereni e Valeria Fedeli, si riuniranno per iniziare il percorso verso l’unificazione dei dipendenti come previsto dal Ddl Boschi. Mentre ad aprile la Consulta dovrà esprimersi sull’abolizione dell’autodichìa (la prerogativa delle Camere di risolvere all’interno del controversie del personale), con la possibile fine dell’autonomia sui bilanci e gestione del personale da parte degli organismi costituzionali. Tempi duri (si fa per dire) per il Palazzo.