Libero, 12 gennaio 2016
Perché Morricone non s’incazza mai? Breve storia dei premi che non ha ricevuto
Per questo premio elargito all’87enne Ennio Morricone – terzo Golden Globe per la colonna sonora di The Hateful Eight, l’ultimo film di Quentin Tarantino – l’87enne Morricone potrebbe anche incazzarsi. Ma, se non è andato a ritirarlo, non è per questo, e non è per questo se ha lasciato che lo ritirasse direttamente Tarantino che ha subito sparato un’americanata delle sue: «Morricone è il mio compositore preferito, e quando parlo di compositore non intendo quel ghetto che è la musica per il cinema, ma sto parlando di Mozart, di Beethoven, di Schubert». Un fuoco d’artificio come un altro, un paragone senza senso: l’unico dato in comune è che tutti questi compositori ebbero gloria tardiva o postuma. Sicché un Morricone potrebbe anche incazzarsi – dicevamo – perché i premi più pesanti sono quelli che non gli diedero quando li meritava. Non, dunque, quelli genericamente celebrativi che lo omaggiano in differita e che vivono di luce riflessa.
Il numero che impressiona, del resto, non sono gli 87 anni di Morricone, bensì le 500 e oltre colonne sonore che ha realizzato in vita sua (più varia musica contemporanea) e la sessantina di film che anche grazie a lui hanno vinto dei premi: pure impegnandosi per conoscerlo a fondo – lo scrivente ci provò in una vita intera – alla fine ci si perde. Ora Morricone fa “solo” due o tre colonne sonore all’anno, ma negli anni Settanta poteva superare le 25, più di un paio al mese. E trovatene una brutta, se ci riuscite, una tirata via, una che non si riconosca all’istante («Morricone») e al tempo stesso che non sia diversa da qualsiasi altra. A volerla proprio trovare – oddio – pescheremmo proprio questa di The Hateful Eight, che nell’ouverture ci ha ricordato il «deserto» del Il buono, brutto e cattivo (1966), ma può darsi che Tarantino la volesse così, saccheggiata: del resto è lui ad aver sempre saccheggiato Morricone infilandolo nei suoi film. Anche La lettera di Lincoln riecheggia vecchi motivi e soprattutto vecchi arrangiamenti, ma non è il caso di fare i leziosi.
Il punto è che le colonne sonore che meritarono di più sono proprio quelle che non vinsero un tubo, le stelle la cui luce, ora, giunge con decenni di ritardo. Ne citiamo tre? La «Trilogia del dollaro» (facciamo quadrilogia, aggiungiamoci Giù la testa) e poi C’era una volta in America oppure Mission. Ne aggiungiamo un’altra ventina? Anche no. Ricordiamo semmai che nel 2007 Morricone ricevette un senile premio Oscar alla carriera dopo esser stato nominato almeno altre cinque volte (a partire dal 1979, non prima) e questo mentre con ritardo cominciavano a fioccare “solo” tre Grammy awards, cinque Baftas, dieci Davide di Donatello, undici Nastri d’argento, un Leone d’oro ecc.
Tuttavia Morricone non s’incazzò allora né s’incazza ora, in linea di massima non s’incazza mai, andò alla cerimonia degli Oscar e fece un discorso di una modestia annichilente: «Il mio pensiero va a tutti gli artisti che hanno meritato questo premio e che non lo hanno avuto. Io gli auguro di averlo in un prossimo vicino futuro. Credo che questo premio sia per me non un punto di arrivo, ma un punto di partenza per migliorarmi al servizio del cinema... Dedico questo Oscar a mia moglie Maria che mi ama moltissimo e che amo allo stesso modo».
Ora: dire le cose come stanno rischia di far sembrare piagnoni e provinciali, ma se Morricone non fosse stato italiano (e se Sergio Leone non avesse osato spaccare il botteghino proprio con dei western, americani per eccellenza) forse le cose sarebbero andate diversamente. Non inventiamo nulla: agli americani piacciono soprattutto gli americani, mentre amano premiare gli italiani, da sempre, perlopiù nella storica salsa a base di mafia e spaghetti e P38 e Pulcinella e ladri di biciclette.
Ricordo, nel 2001, quando nelle nomination all’Oscar Morricone si ritrovò in lizza col pur dotato Hans Zimmer, all’epoca autore della colonna sonora de Il Gladiatore: una scopiazzatura clamorosa di Wagner, Mahler, Sibelius, Peter Gabriel, Holtz, Stravinsky con l’aggiunta – minuto 7.40 – di un’inconfondibile schitarrata tipo Morricone nei western di Leone. Beh, morale: l’imitatore ha preso più Oscar e più nomination dell’imitato. Due parole infine sul Morricone compositore di musica “seria”. Si formò al Conservatorio di Santa Cecilia e rischiò di diventare uno sbiadito emulo del suo professore di composizione, Goffredo Petrassi: ossia un’autentica biblioteca umana, ma al tempo stesso un esponente spesso inconsapevole di certa alterìgia che per decenni aveva rinchiuso la musica contemporanea nell’astrazione, nell’enigma, nell’isolamento narcisistico travestito da sacralità. Si parla di quella musica che ha perso definitivamente ogni rapporto col sedicente pubblico e che si meritò la famosa riflessione di Leonard Bernstein: «La nostra è l’unica epoca della storia che si nutra, in fatto di musica classica, della produzione del passato». Morricone avrebbe rischiato d’ingrossare le fila dei Donatoni, Sciarrino, Bussotti, Maderna, Nono, Berio, più altri non a caso sconosciuti a un pubblico anche colto: i seguaci della dodecafonia, dell’atonalità, gli epigoni del triangolo Berg-Schoenberg-Webern, della scuola di Darmstadt negli anni ’50, personaggi che non hanno mai accettato confronti che non fossero arroccati nella loro cittadella musicale. Tutti pensiamo di essere votati a qualcosa di più alto: Morricone non lo pensò, rimase al suo massimo livello di competenza e ne divenne il numero uno. Lunga gloria, dunque.