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 2016  gennaio 12 Martedì calendario

Così Mimmo Candito ha vinto la guerra contro il cancro

La paura di morire, la prima volta, mi prese in un tempo lontano da oggi, ma lontano davvero se il tumore allora non aveva ancora un nome, tutti lo chiamavano «quel brutto male», e lo dicevano a voce bassa, bassi anche gli occhi, come per vergognarsi. Io, quel giorno, anzi quella notte, ero a Beirut, la capitale del Libano, tagliata in due da una guerra che sarebbe continuata ancora per quindici anni. 
Non ero mai stato in guerra, prima. Avevo già raccontato l’America Latina e i suoi guerriglieri, ma erano frange d’un mondo che subiva conati di rivoluzione senza frantumarsi. La guerra no, la guerra squarcia una storia da dentro, non lascia spazi vuoti, consuma vite, speranze, illusioni, consuma passato e futuro. Io, ancora non lo sapevo; cominciai a impararlo da quel giorno di Beirut, all’Hotel Commodore. 
Già arrivare in albergo non era stato facile, dalla strada dell’aeroporto si sparava e da una parte c’erano i palestinesi e dall’altra i maroniti libanesi. E non era soltanto lo scontro a fuoco con le armi leggere, tiravano anche cannonate e l’aria se ne riempiva con tonfi sordi. «Questa è in uscita» mi dicevano, outgoin’, oppure no, «questa arriva», incomin’. E io imparavo. 
Ero emozionato, ma l’emozione non era ancora paura. Forse perché, fuori, per strada, c’era la luce forte del giorno, o forse, piuttosto, perché in quel momento la curiosità, la voglia di capire, si rubavano le mie emozioni. 
Beirut Anni Settanta
Ma quando me ne andai a dormire, e Beirut era nera del buio cieco, e gli scontri a fuoco si avvicinarono che li sentivo quasi sotto la finestra con i pick-up che andavano sgommando e i cannoncini che tiravano, allora sì che l’emozione si trasformò di brutto, e mi sentii in trappola, che non sapevo che cosa fare, come comportarmi, dove proteggermi. 
Era la metà degli anni Settanta, e oggi ne rido, ma quella notte mi buttai sotto il letto, vestito, pensando che comunque il materasso un po’ di protezione me la poteva dare. Mi addormentai, anche, per qualche attimo, perché prevalse la stanchezza; ma poi mi tirai su, e decisi che tanto valeva farsi animo, e che, se la cannonata arrivava, certamente non sarebbe stato un materasso a salvarmi. 
Dormii fino a mattinata tarda, pacificato con me stesso. 
Oggi che la morte l’ho sfiorata anche lontano dalla guerra, e che il tumore è stato ad appena un soffio d’aria da me, un soffio che poteva spengersi in ogni momento, quella paura di morire non ce l’ho più ormai da tempo. Ma anche chi scampa dal cancro resta comunque un sopravvissuto, uno cui la sorte ha fatto un regalo che vale la vita. E in America, dove anche la vita e la morte possono diventare materiale profittevole nel mercato della comunicazione e dei consumi, ne hanno fatto perfino un club, i Survivors, con i suoi spot colorati in tv e, sotto, una musichetta dondolante, che sa di melassa: iscrivetevi, sarete più felici. 
Il tumore, comunque, se non ne muori muta lentamente, a farsi una memoria delle tante, che va sbiadendo la sua spietata drammaticità e diventa un ritaglio qualunque della tua vita; proprio come quando il tuo lavoro di reporter ti sbatte via per il mondo a raccontare una guerra: l’Afghanistan, i deserti pietrosi dell’Iraq, il Congo delle sue foreste e dei suoi mille popoli, la Somalia. Sono storie, tutte, allo stesso modo orrende, che puzzano di morte, di piscio, e di sudore, e però ormai ti ci sei abituato, e allora nemmeno ti prende più l’affanno di quelle prime volte, ma solo l’angoscia disperata di non capire, più che una paura della morte. 
Quella mattina lì
Perché ora, dentro di te, capire conta assai più di qualsiasi paura, anzi la cancella, la paura: dà identità, consistenza concreta, a una realtà che all’inizio, quando arrivi in guerra, ti si mostra invece ambigua, angosciosa comunque, e che senti che non riesci a piegare al tuo bisogno di sapere per poterne tentare un controllo. Certo, in una guerra si giocano mille destini, o anche centomila, mentre nel tumore ci sei soltanto tu. Ma quel gioco disperato, per te è lo stesso, vale la vita e la morte. E tu vuoi capire. 
Io l’ho scoperto, di avere un tumore, che nemmeno sembrava possibile che fosse quella roba lì. 
Nel nostro immaginario, il cancro è una sorta di bestia infida che scatena reazioni emotive fuori da qualsiasi controllo; basta il soffio appena sussurrato di quella parola – tumore – perché ancora oggi si apra uno scenario dove tutto è segnato da un’ombra di morte inevitabile, i volti afflitti, i toni sommessi, uno sguardo che si fa subito commiserevole, e il rapporto con il malato si costringe di atti formali, come se già si fosse al funerale e un cordoglio muto e partecipe dominasse l’attesa.
Quella mattina lì, ero in braghe corte, una t-shirt con il faccione striato di Bob Marley, e un paio di espadrillas colorate dal mare.