la Repubblica, 12 gennaio 2016
Messi vince il quinto Pallone d’Oro ma Buffon e Conte non votano
Messi è il pallone, non un Pallone d’Oro. E nemmeno cinque. La sua festa, organizzata da una Fifa senza padrone e senza sorrisi, viene guastata dall’Italia. Fra le 498 schede (162 capitani e 165 ct di nazionali, 171 giornalisti) mancano quelle di Buffon e Conte. La Figc avrebbe boicottato la votazione “per lanciare un segnale” (non gradita l’esclusione di Buffon dai 59 candidati). Ma Messi non discute e non si discute: «Scambierei volentieri uno di questi con il titolo mondiale della mia Argentina». È il suo modo di ricordare a tutti che il vero premio, per te che ti esprimi attraverso il calcio, e lo ami, e vorresti tanto proteggerlo, è vincere in campo, «è l’emozione dei tuoi compagni che si fonde con la tua in ogni categoria», disse un giorno Guardiola. Non sono nemmeno i milioni che ti piovono addosso se sei un campione, il vero risarcimento, ma «l’adrenalina che t’inonda le vene quando segni, o triangoli, o lanci, o pari, o assisti, o salvi», spiegò a suo tempo Thierry Henry. E non c’è prezzo per tutto questo fuoco, non c’è scultura o assegno o sponsor, non c’è serata in cui si possa spiegare l’inspiegabile amore che muove il sole (Messi) e le altre stelle. Solo la Fifa ci crede ancora. Il calcio si gioca in tanti, raramente si perde in pochi e quasi mai si vince da soli. La sua bellezza e la sua efficacia sono vincolate a una somma di gesti collegati. Oggi l’atleta premiato esprime soprattutto l’equilibrio del modello tattico in cui è calato. Il Pallone d’Oro deve andare «a chi perfeziona un gesto d’insieme e non per forza al singolo perfetto», dice Ferguson. Messi è entrambe le cose. L’evoluzione dello sport ha archiviato l’estasi del gol: abbiamo scoperto che l’azione perfetta è una sequenza di estasi, una genera l’altra ( il 4-1 del Barcellona contro l’Espanyol del 6 gennaio). Aveva ragione Pippo Inzaghi nel dire che il suo Pallone d’ Oro era la finale di Champions vinta ad Atene dal suo Milan contro il Liverpool (2007). Secondo Inzaghi e Messi l’oro non è metallo prezioso ma giocata preziosa che non ha bisogno di metalli per finire in bacheca (e forse nemmeno della pacca sulla spalla della Fifa): sono gli occhi in platea che si commuovono a mandare avanti lo spettacolo.
I premi sono macchine mediatiche, il calcio no, semmai le mette in piedi. «È un onore essere il primo a conquistare per cinque volte il Pallone d’Oro. Ero “chichito” la prima volta che salii su questo palco e questo va oltre i miei sogni infantili». Ora è lui che fa sognare, come del resto gli “sconfitti” Neymar e Ronaldo. Infagottato di gloria, Leo rimane quello di sempre, vagamente triste: «Il calcio non è solo gioia ma anche sofferenza». E non è mai “uno” bensì “gente”, gente che dal primo controllo di palla abbellisce una squadra di calcio con mille recondite armonie. Capitò col Barça di Guardiola, sta capitando a quello di Luis Enrique che ieri a Zurigo è stato premiato come miglior allenatore dell’anno. Nell’11 ideale c’è Pogba fra Barça, Madrid, Thiago Silva e Neuer. Tra le donne ha vinto l’americana Carli Lloyd. Delusione Florenzi (con Garcia in fuga dall’esonero per 24 ore): per i votanti il miglior gol è stata la sforbiciata del brasiliano Wendell Lira: «Il Brasile è più grande dell’Italia...», ha scherzato Florenzi. Ci sperava. Se lo sarebbe meritato.