Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  gennaio 12 Martedì calendario

Noteboom visita le tombe degli scrittori. Ne nasce un nuovo Spoon River

Cees Nooteboom, scrittore e poeta olandese, ha voluto dare un titolo spagnolo a un suo libro di qualche anno fa che soltanto ora esce in Italia, cioè Tumbas (traduzione di Fulvio Ferrari, Iperborea, pagine 374, e 20) perché, così spiega, alle sue orecchie quel termine ha un suono particolarmente gioioso. A orecchie italiane forse un po’ meno, in cambio, però, si addice perfettamente al contenuto, poiché di tombe, appunto, di loculi, sepolcri, cappelle mortuarie qui si parla.
Tombe speciali, però, di poeti e, dunque, non irrimediabilmente mute come tutte le altre, bensì in grado di parlare ancora, perché le parole e i versi di chi vi è sepolto restano presenti e vivi nel cuore del visitatore, il quale potrà, perciò, dialogare con il morto, a volte, anche, rinnovare una conoscenza, un’amicizia. Tombe cercate e rintracciate in tutto il mondo, descritte, fotografate e ascoltate con attenzione, per un novello Spoon River cui l’autore ha dedicato tempo e passione; senza che, nonostante l’ambientazione, venga meno la sua solita sottile vena di ironia che, di quando in quando, momentaneamente emerge, salvo poi di nuovo ritirarsi in compostezza visto che, comunque, sempre in qualche cimitero ci si trova.
Si comincia con Carlos Drummond de Andrade e si finisce con William Butler Yeats, una novantina di tombe visitate, spesso nascoste da erbe e cespugli, spesso dimenticate, difficili da trovare nonostante le dritte di internet e l’aiuto di amici letterati. Una novantina di colleghi visitati dal poeta Nooteboom che, quasi ogni volta, ha avuto l’impressione di conoscere quei morti molto meglio della maggior parte dei vivi. Tra i novanta di questi suoi conoscenti stretti seppelliti tra Europa e America, sono pochissime, tuttavia, le donne. Non più di quattro le poetesse, Virginia Woolf, Susan Sontag, Mary McCarthy, Simone de Beauvoir, e c’è il sospetto che quest’ultima sia stata presa in considerazione più che altro perché giace assieme a Sartre.
Dei poeti, per contro, sembrano esserci buona parte dei grandi, da Virgilio, Dante, Cervantes, Goethe, Leopardi, Balzac, Keats, Shelley fino a Auden, Beckett, Borges, Brodskij, Neruda, Montale. E molti di loro dormono nei più bei cimiteri del mondo, per esempio ai parigini Père-Lachaise e Montparnasse, alla Recoleta di Buenos Aires, al San Michele di Venezia, all’Acattolico di Roma, mentre altri risposano solitari in un giardino oppure dentro un personale mausoleo o anche in uno squallido, semiabbandonato camposanto di periferia. Laddove il termine riposare sembra a volte un eufemismo, come, per esempio, nel caso di Virgilio, che se ne sta (per modo di dire, perché le sue spoglie sono andate perdute in epoca medievale) alla partenopea Grotta di Posillipo, mentre poco lontano, sotto di lui, scorre il solito traffico napoletano da incubo.
A ciascuno dei «suoi» morti, Nooteboom dedica qualche riga o qualche pagina, rievoca un incontro letterario oppure, in qualche caso, in carne e ossa, aggiunge un ricordo personale o, anche, l’una o l’altra strofa del poeta lì sepolto che gli è rimasta fissa nella memoria; e così facendo strettamente coinvolge chi legge nelle sue visite, per una riscoperta (e rilettura) di parole e versi che non andrebbero dimenticati.
L’autore è andato a trovare i suoi venerati colleghi perché, così dice, in un certo senso gli appartengono, fanno parte della sua vita, perché nel tempo lo hanno accompagnato in modi diversi, lo hanno consigliato, sorpreso, rallegrato, fatto riflettere, e le loro voci sono rimaste per lui voci vive. Perciò mai, nel corso delle sue numerose escursioni nei cimiteri del mondo, pur circondato da ogni lato da tombe, ha avuto la sensazione di visitare soltanto un morto.
E alla fine il lettore non può che trovarsi d’accordo su due affermazioni almeno: che scrivere è un modo per rinviare la morte e che, dopo tutto, il termine tumbas risuona all’orecchio in modo meno funereo del previsto.