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 2016  gennaio 12 Martedì calendario

In morte di David Bowie

Matteo Persivale per il Corriere della Sera
Sapeva cambiare con la velocità del fulmine che gli solcava il viso sulla copertina di «Aladdin Sane» (1973). David Jones, ragazzo di Brixton con la frangia da scolaretto, la cravatta Regimental strettina e la camicia bianca con i bottoncini nella famosa foto del 1965 era destinato a esplorare mondi lontani: inevitabile che finisse col prendere in prestito il suo cognome d’arte da James Bowie, pioniere del West americano.
Musicista affascinato dal silenzio, aveva studiato da mimo con il coreografo Lindsay Kemp e diventò anche – tra un disco e un tour mondiale – divo del cinema: misterioso alieno in L’uomo che cadde sulla Terra, soldato della seconda Guerra mondiale in Furyo, vampiro in Miriam si sveglia a mezzanotte, stregone in Labyrinth, agente Fbi per David Lynch in Fuoco cammina con me, nei panni di Andy Warhol in Basquiat coronando un piccolo sogno da pittore dilettante (di talento).
Trentanove «credit» come attore, altrettante tappe della metamorfosi continua – «Non so dove sto andando, ma non sarà noioso» – che lo portarono dal look da scolaro al caschettone beatlesiano, dalla chioma fluente femminile che fece scrivere al Daily Mirror nel 1971 la didascalia «Quale dei due è il papà?» (nella foto c’era lui vestito da donna e la moglie Angie vestita da uomo: spingevano il passeggino di Zowie) alla chioma porporina di «Ziggy Stardust» (1972).
L’anno successivo ecco il fulmine sul viso di «Aladdin Sane», Ziggy diventa ancora più alieno, il suo glam rock meno riflessivo e più aggressivo, più manifestamente americano («Spero un giorno di visitare il tuo Paese», scriveva ventenne in una lettera di ringraziamento a una fan americana che intenerisce per grazia e timidezza»).
A quel punto Bowie, a malapena ventiseienne, ha già distrutto i generi, normalizzato la pansessualità – una rivoluzione, ma da rara rockstar che aveva letto i greci sapeva che si trattava della norma 2.500 anni prima di lui – e aperto la strada alla moda «senza genere» che oggi domina sulle passerelle mondiali. Proprio ieri, pochi minuti prima dell’annuncio della sua morte, erano arrivate le immagini della nuova campagna del marchio che più di tutti riflette sull’eredità senza genere di Bowie, Gucci, dove i modelli e le modelle camminano nella metro di Berlino tenendo in braccio un grande pavone, guardano l’alba dal tetto di un palazzo vestiti allo stesso modo, stesso stile, ragazzi e ragazze uniti dalla stessa sensibilità.
Dopo la magia di Aladino (in realtà «Aladdin Sane» era un gioco di parole su «a lad insane», «un ragazzo matto») e l’azzimata inquietudine (con capelli impomatati e pupille dilatate dall’abbondante, autodistruttivo uso di cocaina) del «Duca Bianco» nel 1976, ecco la tappa successiva del viaggio di Bowie: il «periodo berlinese» del colore nero e della depressione, il look che diventa astratto come la musica (fase molto amata dai compositori contemporanei), in attesa della rinascita «new wave» con i capelli cotonati e il papillon, le maniche a sbuffo dei Tin Machine in attesa degli anni 90 e del trionfo dell’elettronica mentre il rock prendeva la direzione del grunge dei Nirvana e della California dei Red Hot Chili Peppers.
L’ultima stagione è quella della classicità fino a quel momento mai esplorata davvero – pur conoscendola benissimo – e della salute in declino, qualche foto da paparazzo dell’ex Duca Bianco pallidissimo con felpa e occhiali neri, cuore e fegato male in arnese dopo una vita vissuta a tutto volume.
Gli anni del ritiro dai concerti, dell’omaggio del museo Victoria & Albert di Londra.
In attesa dello straordinario passo d’addio: il caschetto biondo e l’abito scuro e la camicia nera di «Blackstar», il video con la tuta d’astronauta che contiene soltanto uno scheletro, commiato dal mondo dell’uomo che cadde sulla terra per dare una lezione di classe e intelligenza, mostrandoci quanto abbagliante possa essere la bellezza, quanto mutevole, e fragile. E con quanta facilità si possa spezzare.
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Mario Luzzatto Fegiz per il Corriere della Sera
Se ne va un artista poliedrico, eclettico, di straordinaria lucidità, che ha colto i palpiti della coscienza collettiva, le ansie di fine millennio, con quella timbrica, quei suoni e quelle atmosfere che si fondono alla perfezione con la sua faccia da mimo impenetrabile. Il successo di Bowie arriva nel 1969 con «Space Oddity», uno struggente ritratto di solitudine, quello del Maggiore Tom perso nello spazio. La partitura rappresenta l’angoscia e la freddezza degli immensi spazi siderali. Di lì a poco Bowie pubblica «The Man Who Sold the World». Una vocalità magica, un uso sapiente dei sintetizzatori. L’album propone anche canzoni dal contenuto scabroso. Lui punta a scandalizzare con travestimenti audaci tesi a sottolineare la sua condizione di bisessuale. Nel 71 pubblica «Hunky Dory», più commerciale in cui spicca «Life on Mars», omaggio a Dylan e ai Velvet Underground. Segue un tour in cui si presenta in fogge molto trasgressive, ma i vari elementi musicali restano abbastanza confusi. La svolta nel 1972 con un lavoro che fonde in maniera gradevole e omogenea le sue variegate intuizioni: «The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars». Protagonista un alieno androgino dalle movenze sgraziate, truccato come una drag queen. Un rock apocalittico. Produce «Transformer» successo planetario dell’amico Lou Reed. Dopo aver pubblicato «Station to Station» (che contiene il verso «Thin White Duke», da cui il nomignolo di Duca bianco), inizia a collaborare a Berlino con l’amico Brian Eno con il quale darà vita a «Low», «Heroes» e «Lodger». Poi, con «Let’s dance», fa ballare il mondo. Il suo stile fa scuola: se ne colgono echi in Visage, Ultravox e Spandau Ballet. Nell’85 il duetto con Mick Jagger in «Dancin’ in the Street» al Live Aid. Rilevante per passione e freschezza è la colonna sonora del film «Absolute Beginners» (’86). L’omonima canzone esprime con candore ed entusiasmo il piacere e la libertà delle origini, il dilettante che si rifiuta di diventare mestierante. Nello stesso album una sua versione di «Nel blu dipinto di blu». Una carriera composta da 27 album in studio, 8 live, 47 raccolte, 111 singoli e 3 colonne sonore. Da ricordare «Heroes» del ’77, che attraverso la metafora di un amore evoca gli ultimi lampi della guerra fredda e del muro di Berlino. E ancora «Scary Monster» (’80), «Let’s Dance» (’83), «Under Pressure» (con i Queen) e «Heathen» del 2002.

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Andrea Laffranchi per il Corriere della Sera
Capita ad ogni addio. L’ultimo lavoro di un artista scomparso viene guardato al microscopio per cercare indizi e profezie sul destino che lo attendeva. Figuriamoci nel caso di un album pubblicato pochi giorni prima della morte come ★ («Blackstar») di David Bowie, uscito venerdì e già al numero 1 su iTunes praticamente ovunque, dall’Italia all’America.
I testi delle canzoni – e i video di «Lazarus» e «Blackstar» – sono disseminati di riferimenti esoterici e oscuri, difficili da cogliere. Almeno fino a ieri, quando nessuno ancora sapeva che la rockstar era ammalata. Le foto che giravano mostravano uno splendido quasi settantenne, magro e tirato sì, ma in forma. La prima frase di «Lazarus» adesso fa venire i brividi. «Guarda in alto, sono in Paradiso! Ho delle cicatrici invisibili». Quello che non era di immediata comprensione, ora sembra autobiografico. «Guarda qui, uomo, sono in pericolo/ Non ho più nulla da perdere» ha il tono di un uomo che accoglie il proprio tragico destino con serenità. La canzone è la colonna sonora dell’omonimo musical in scena a New York basato su L’uomo che cadde sulla Terra (romanzo fantascientifico portato al cinema nel 1976 con Bowie nei panni di un alieno umanoide): è un personaggio di fantasia quindi a dire quelle parole, ma possiamo immaginare che l’autore abbia voluto raccontarci un altro pezzo della sua vicenda umana.
Anche il video del brano assume un altro significato. La star è in un letto di ospedale, con delle inquietanti bende sul viso e dei bottoni al posto degli occhi. Sembra in preda al delirio e una luce dura rende tutto ancora più drammatico. Nelle immagini finali cammina all’indietro meccanicamente fino a rinchiudersi in un armadio. E poi il buio. Non sono speculazioni, forzature post mortem. Lo confermano le parole di Tony Visconti, produttore dell’album e collaboratore di David dagli esordi: «La sua morte non è stata diversa dalla sua vita: un’opera d’arte. Ha fatto “Blackstar” per noi, un regalo d’addio», ha scritto su Facebook.
«Blackstar» è il testamento artistico di un grande del rock. Non soltanto per questi messaggi d’addio. Che fosse un disco speciale lo suggeriva la copertina. Per la prima volta senza una sua immagine (anche in «The Next Day» non c’era ma era evocata manipolando quella di «Heroes», il capolavoro della trilogia berlinese) sostituita da una stella nera e da un ideogramma con un font creato apposta. Anche musicalmente non è scontato. Per l’ultima trasformazione ha abbracciato il free jazz, tornando alla sua prima passione, spiazzando tutti con brani non immediati ma profondi. Bowie è sempre stato l’uomo della sorpresa, e si era tenuto il coup de théâtre per il finale. «Sarò libero/ come un uccello azzurro» canta nel finale di «Lazarus». Libero come sempre e per sempre.

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Giuseppe Videtti per la Repubblica


PENSAVAMO fosse il lugubre presagio di un secolo che fa scempio della bellezza, in realtà la stella nera era un muto epitaffio. O forse entrambe le cose. David Bowie, al secolo David Robert Jones, ucciso dal cancro domenica notte a New York dopo aver lottato per 18 mesi, aveva coscientemente concepito Blackstar, l’album pubblicato l’8 gennaio (giorno del 69° compleanno), come un addio definitivo, lo conferma anche lo storico produttore Tony Visconti, che sta allestendo un tribute concert alla Carnegie Hall per il 31 marzo. Sapeva che il tempo era scaduto, che gli restavano solo minuti per dire l’ultima. Chissà quanti avranno abbassato gli occhi per aver denunciato la sua incapacità di scrivere un’altra Space oddity o un’altra The Man who sold the world o un’altra Life on Marsmentre lui porgeva al mondo il De Profundis più vicino alle dissonanze berlinesi di fine anni 70 (la trilogia Low, Heroes e
Lodger; «Sei tra gli Heroes. Grazie per aver aiutato a far cadere il Muro», ha twittato il ministero degli Esteri tedesco) che alle canzoni più celebri.
Tre milioni di tweet in quattro ore: non per celebrare o rimpiangere, ma per dire grazie. Dai Rolling Stones, ovvio. Da Iggy Pop, ovvio. Da Madonna, ovvio. Ma anche da Cameron e Blair, da Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, e da Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio della Cultura.
Bowie era figlio di un’epoca dove l’arte non aveva confini e non era vittima del conformismo. Oggi, a riascoltarla, Space oddity (che nel 1969 ebbe una tiepida accoglienza, anche nella insipida versione cantata in italiano) è una sofisticata canzone da hit parade. Per Bowie fu l’inizio di quell’ossessione spaziale che avrebbe illuminato i capolavori pre e post Ziggy Stardust. Fu un geniale coup de théâtre a trasformarlo in idolo. Quando nel 1972 The rise and fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars diede una sterzata violenta al corso della pop culture, Bowie era già al quarto album - e non era più soltanto rock. Aveva sublimato il Kubrick di 2001: Odissea nello spazio, vampirizzato Lindsay Kemp e Andy Warhol, succhiato da Nietzsche e Orwell. Si era intossicato di Jacques Brel, Scott Walker e Anthony Newley. Prepotentemente, stava scippando lo scettro non alle mezze calzette di Top of the Pops ma al Sinatra degli anni d’oro (il mondo l’avrebbe capito dopo gli exploit cinematografici e la full immersion da crooner in Wild is the wind).
Nessun altro è stato in grado di calarsi anima e corpo in un personaggio come Bowie in Ziggy Stardust, l’alter ego che l’ha trasformato in culto, una rockstar aliena venuta a portare messaggi di speranza sulla terra e divorata dall’adorazione dei fan. Per riuscirci mise in atto tutte le strategie di un secolo di show business. In quel debutto al Rainbow Theatre di Londra nel ’72, Bowie era già posseduto da Ziggy, un rocker asessuato eppure sensualissimo, Judy Garland e Liberace fusi in un nuovo, immaginifico, rivoluzionario divo interstellare. Non si risparmiò: la cocaina per mantenere il controllo (complice l’allora moglie Angie, che oggi, dopo aver appreso la notizia ha preferito restare nella casa del Grande Fratello made in UK), la mimica straordinaria, l’abilità deltrasformista, l’ostentazione di una sfacciata bisessualità – era il delirio in sala quando s’inginocchiava davanti al chitarrista Mick Ronson e mimava un rapporto orale. Se non fosse stato il genio che era, non ne sarebbe più uscito; Ziggy – che ancora non la finisce di essere citato e riciclato in servizi fotografici e collezioni di moda: il make-up, il taglio, il pel di carota, le tutine spaziali - sarebbe diventata la sua maschera di ferro, lo avrebbe condannato alla malinconica routine dei revival show. Invece dopo un anno, il mondo ai suoi piedi, mandò alla ghigliottina la sua creatura con un concerto all’Hammersmith Odeon di Londra filmato da D.A. Pennebaker (autore del leggendario Don’t look back di Dylan). Prima di cantare Rock’n’roll suicide, bistrato, stravolto, emaciato, sputò nel microfono: «Non solo è l’ultimo concerto del tour, ma l’ultimo in assoluto che faremo ». Si scatenò il pandemonio, i fan non avevano capito che Ziggy si stava suicidando per far rinascere Bowie. Fu un anno di gloria e distruzione che gli avrebbe garantito a vita il privilegio che aveva invidiato a Jackson Pollock e a Bob Dylan, libertà anche a costo della follia. Da quel momento, niente più confini: il piacere del déjà-vu (l’album di cover Pin- ups) e l’edonismo esasperato ( Aladdin sane), imagerie postbelliche ( Diamond dogs) e escursioni nella black music ( Young Americans), cinema ( Gigolò, Miriam si sveglia a mezzanotte, L’uomo che cadde sulla terra, Furyo, Labyrinth, Basquiat) e pittura, avanguardia con Brian Eno (che ha ricevuto l’ultima mail da Bowie una settimana fa: «Divertente e surreale come sempre. Grazie per i bei vecchi tempi, rimarranno intatti, scriveva. Si firmava Dawn (alba). Solo ieri ho capito che era un addio ») e clamorose (auto)celebrazioni (Live Aid, Freddie Mercury Tribute), duetti memorabili (con Bing Crosby, Mick Jagger, Annie Lennox, Tina Turner, Iggy Pop, Queen) e progetti paralleli (Tin Machine), collaborazioni insolite (John Lennon e Luther Vandross, ma anche Moby e Arcade Fire) e fulminanti apparizioni nei talk show (impressionante quella in cui esangue e visibilmente “cocainato” tiene testa alle sciocche domande di Dick Cavett).
Dopo la separazione da Angie, dalla quale aveva avuto il figlio Duncan Jones, il regista 44enne di Moon che ieri ha dato la notizia del- la scomparsa, Bowie aveva sposato a Firenze la top model Iman (la figlia Alexandria Zahra ha quindici anni) e si era trasferito a New York. Era chiaro, dalle foto rubate dai paparazzi, che non stava invecchiando come una glam-star, e neanche come il Major Tom prepensionato di Ashes to ashes.
Avrebbe potuto dare ancora molto, come Jagger o Mc Cartney, invece se n’è andato dopo aver realizzato il sogno di un musical Off-Broadway ( Lazarus, tutt’ora in scena). Nella fretta di scrivere la parola «terrore» nel suo testamento sonoro, non ha fatto in tempo a produrre il tanto desiderato Ziggy Stardust teatrale di cui ci parlò nell’ultima intervista. A chi, uno per uno, è stato toccato dalla sua grazia, non resta che farsi sussurrare per l’ultima volta le parole di Jareth (il re dei Goblin che impersonava in Labyrinth): «Ho sovvertito l’ordine del tempo, ho messo sottosopra il mondo intero e tutto questo l’ho fatto per te. Non ti sembra abbastanza generoso?». Oppure, piangere.

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Anna Bandettini per la Repubblica
SONO PASSATI cinquant’anni da quando, a Londra, si erano amati con passione, poco meno da quando nel ‘72 cambiarono il rock con The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars. Per Lindsay Kemp, che oggi vive a Livorno, insegna e porta in giro il suo spettacolo Kemp dances, dovrebbero essere solo ricordi. Invece basta niente per riaccendere le emozioni del suo trasgressivo e creativo legame con David Bowie. «Sono triste, ma ricordo con gioia le cose che abbiamo fatto. David ci ha dato piacere, anche incoraggiando le persone a essere più aperte, per esempio in fatto di omosessualità e bisessualità».
Signor Kemp, sa che anche il Vaticano ha espresso il suo cordoglio?
«Sono felice. È un modo per recuperare sul terreno dell’omofobia. Mi pare che Francesco stia lavorando in questo senso».
Lei e Bowie vi conosceste nel 1966: lei era già un ballerino affermato. E Bowie?
«Aveva 19 anni. Era uno sconosciuto. Venne in camerino a Londra dopo un mio spettacolo. Un ragazzo brillante. Voleva studiare con me. L’indomani tornò con la chitarra a dodici corde e una bellissima canzone, When I live my dream, che io misi nello spettacolo».
E poi?
«Fu amore a prima vista. Forse il più grande della mia vita».
E per Bowie?
«Non so se per lui fu altrettanto profondo.
David veniva alle mie lezioni, andavamo a vedere spettacoli, ci divertivamo molto. Insieme facemmo Pierrot in Turquoise. Io gli insegnavo a esprimersi con il corpo, a truccarsi, a scegliere i costumi. Creammo il body symbol. Era biondo, bello, molto charming, ma anche esigente e aveva bisogno di nursering ».
Forse per questo poi ebbe anche relazioni con donne.
«Che gelosia. Quando David mi lasciò per la costumista del nostro show, Natasha Korlinov, fu terribile. Tentai il suicidio».
Suicidio?
«Non fu una cosa seria. Ma soffro ancora della sua infedeltà. Dalla passione nacque una bella amicizia, tanto che nel ‘72 la moglie di David, Mary Angela Barnett, Angie, mi chiese di dirigere lo show Ziggy Stardust ».
Di chi fu l’invenzione del personaggio di Ziggy?
«Di David. Io ne feci un simbolo della sua musica. Lui mi aveva fatto sentire l’album, le cover di Jacques Brel, Lady Stardust. Io ci misi l’ispirazione all’arte giapponese, Artaud, Jean Genet, l’avanguardia. Inventammo il glam: per la prima volta il teatro irrompeva nel rock».
Perché finì tra voi?
«Perché David divenne una superstar. Anche se capace con coraggio di influenzare milioni di fan. Non lo vedevo da tempo, non sapevo che stava così male. Ma le persone che ami non muoiono mai».

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Gino Castaldo per la Repubblica
SCURE, preziose gemme che si dissolvono improvvisamente nel nulla, tracce di dolore per il genere umano nell’imminenza della fine. La “stella nera” di David Bowie è un segno d’arte che riusciremo a capire fino in fondo solo col tempo, perfino difficile da maneggiare, ora che sappiamo.
Mai era successo che la morte di un artista svelasse il senso più segreto e misterioso della sua ultima opera, eppure ora è successo. Riascoltando oggi
Blackstar, pubblicato appena pochi giorni fa, nel giorno del suo 69simo compleanno, il senso del disco cambia, sterza bruscamente verso un orizzonte di profonda consapevolezza di morte. Possiamo solo intuire l’enormità di un desiderio che oggi si svela in tutta la sua sconvolgente potenza. Appare evidente che Bowie abbia lavorato, e voluto lavorare, a questo ultimo disco sapendo che i suoi giorni erano contati, sapendo che si trattava del suo ultimo gesto, dell’ultima cosa che sarebbe stato in grado di comunicare al mondo.
Provate oggi ad ascoltare e rivedere il video di Lazarus. Era già piuttosto difficile da sostenere prima, con la sua struggente bellezza lirica, accompagnata da una linea di fiati carezzevole e insinuante come un’onda calma del mare, con un video di un uomo che è morto, che risorge, con le bende agli occhi, come un Lazzaro dei nostri tempi.
Cosa diventa oggi sapendo che Bowie sapeva di morire? «Guarda qui, sono in paradiso, ho ferite che non possono essere viste, drammi che non possono essere rubati… non ho più niente da perdere», canta Bowie e sono frasi che diventano definitive, pensieri e immagini strappate al bilancio di una vita. E cosa diventa quel dirompente primo singolo col titolo dell’album, che dura dieci minuti con visioni terrificanti di stelle nere e un astronauta morto? Tutti hanno giustamente pensato al Major Tom che si perdeva nello spazio di Space Oddity, ma noi sappiamo anche che Bowie ha sempre mescolato con molta arguzia note autobiografiche e spunti di una immaginaria autobiografia raccontata da film e dischi, e che il Major Tom era tornato già anni dopo nel pezzo Ashes to ashesrivelando similitudini con il Bowie drogato di anni prima. Più che un astronauta un artista tossico, perso nel suo dissoluto mondo. Ma ora, come a completare un cerchio, a chiudere i conti di una vita, il Major Tom torna per l’ultima volta in Blackstar rievocato da Bowie alla fine dei suoi giorni, buttato da una parte, un teschio dimenticato, prigioniero della sua tuta, illuminato da una furente stella nera, adorato come un idolo (una deformata rockstar?) a dire per l’ultima volta che non c’è differenza tra verità e finzione, che il gioco dell’arte è il supremo gioco della vita e, ora, anche della morte, come nella più estrema e sublime delle visioni decadenti.
E che l’undici gennaio sia il giorno in cui 17 anni fa moriva Fabrizio De André non fa che aumentare il tragico simbolismo di queste coincidenze. Anche gli ultimi versi del disco quelli di I can’t give everything away non lasciano dubbi. «Seeing more and feeling less» canta Bowie, «saying no but meaning yes, This is all I ever meant, That’s the message that I sent» (Vedendo di più e sentendo di meno, dicendo no ma volendo dire sì, questo è tutto quello che intendevo, questo è il messaggio che ho mandato).
Sembra perfino riduttivo parlare di testamento, epitaffio, qui c’è molto di più, un gesto unico, rabbrividente, lontano anni luce da tutto ciò che assomiglia al presente della musica, un monito devastante di un genio che morendo decide di voler fare l’artista fino all’ultimo dei suoi giorni rendendo perfino la sua morte un’opera d’arte.

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Gabriele Romagnoli per la Repubblica
DAVID BOWIE era come l’orizzonte: remavano per avvicinarglisi e quello si spostava più avanti. Ora che è scesa la notte, tutti provano a mettere il piede su quella linea immaginaria, ma all’incrocio tra fantasia e convenzione non è rimasto nulla, perché nulla c’era realmente, soltanto evocazione con la forma dell’acqua e il peso dell’aria, arte coniugata alla prestidigitazione, declinazioni del corpo esibite come pacchetto per quelle dell’anima, scene e travestimenti che nascondono il personaggio prima della resa finale: una stella nera, una sedia vuota, silenzio.
E invece, rumore per la fine di David Bowie, da ogni parte e con gran cordoglio nonché affiliazione postuma. In 69 anni su questa Terra dove era caduto é stato effettivamente di tutto e di tutti, ha professato ogni credo religioso, politico e sessuale, senza mai dare seguito con forme di appartenenza. Stupisce quindi l’unanimità e il livello di onori che gli vengono tributati da governi di vari Paesi e rappresentati di fedi. Lo rimpiange il premier inglese David Cameron, «cresciuto con la sua musica», che lo definisce «maestro della re-invenzione ». Infatti avrebbe anche voluto re-inventarsi come primo ministro, prima però re-inventando l’intero Paese, perché quello vecchio non gli piaceva, come detestava il “liberalismo ristagnante” e auspicava un regime, pur di esserne a capo, dato che non avrebbe tollerato per sé imposizione alcuna. Provocava, estetizzava, giocava, in politica come in tutto. Lo ringrazia il ministro degli esteri tedesco, inserendolo nel novero degli eroi per aver aiutato a far cadere il muro di Berlino. Due anni prima che accadesse tenne un concerto che potesse essere udito anche al di là, salutò i ragazzi dell’Est, girò per quelle strade il video di “ Heroes”. Anni prima aveva definito Hitler «uno dei primi divi del rock», era stato sorpreso con libri su Goebbels e Speer e fotografato mentre salutava con il braccio teso. Mimava, studiava, scartava, non aderiva. Monsignor Ravasi, attento come sempre, lo saluta twittando le parole diSpace Oddity, l’arcivescovo di Canterbury lo definisce «persona straordinaria» e l’Osservatore Romano «artista rigoroso, mai banale» e con «una personalissima sobrietà» i frati di Assisi ne ricordano «la dimensione spirituale». Dovunque lo portasse, come ogni labirinto in lui. Bowie era stato cristiano fino a rinnegare «il cristianesimo che curva la spina dorsale e esegue ordini». Aveva vagheggiato un perduto Nuovo testamento. Poi aveva abbracciato le dottrine tibetane e si era isolato con i lama per mesi. Era precipitato nella necromanzia e aveva passato notti e notti a disegnare pentacoli. Era tornato, invecchiando, a un dio più condiviso, che ne ascoltava quotidiane parole e preghiere. Non per timore della morte, come poteva spaventarlo una certezza? Ci aveva già fatto pace, e dall’album precedente, il meraviglioso The next day dove cantava di «un uomo perduto nel tempo, semplicemente prossimo alla fine» e di «Stelle che non dormono mai, quelle morte e quelle vive». Non ci credeva, ma lo cantava. Non ha mai fatto altro.
David Bowie non ha seguito correnti e non le ha fondate. È andato con chiunque ma non ha mai fatto gruppo. Ha seguito un istinto che lo portava avanti oltre la linea dove i più si fermavano. È stato polisessuale in un’epoca bacchettona e monogamo quando tutto è concesso. Si è colorato al tempo della monocromia e disegnato a matita mentre impazza il carnevale. Era ovunque, poi è sparito. È stato buono, ma non con Bono: le sue attività benefiche erano meno sbandierate, ma non occultate. «Non era per nulla menefreghista, né il ribelle che impersonò con successo, però credeva negli eccessi come mezzo per raggiungere una dimensione più profonda della propria personalità». Lo disse lui, ma di James Dean. Di se stesso disse: «Non ho messaggi, suggerimenti o consigli, mi limito a dare qualche idea che costringa la gente ad ascoltarmi ancora un po’. Sono loro a trovare il messaggio e così mi risparmiano la fatica ». David Robert Jones creò David Bowie e lo modificò continuamente perché ebbe noia del mondo e meraviglia di sé. Ne fece una stella. Anche le stelle morte sono visibili stanotte. Quelli sotto a fare il coro sono soltanto riflessi.

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Hanigf Kureishi per la Repubblica

DAVID Bowie ed io siamo andati nella stessa scuola di Bromley, il quartiere di South London dove eravamo cresciuti, ma a una decina d’anni di distanza, quelli che ci separavano. Eppure gli insegnanti non se l’erano dimenticato. Una professoressa un po’ antipatica mi avvertiva che, se avessi continuato a fare il ribelle, avrei fatto la stessa fine di Bowie: non so bene cosa intendesse, ma per me era un complimento. Un altro professore, quello di arte, era lo stesso che aveva avuto David: con lui abbiamo fatto tante discussioni su Bowie, sul suo messaggio di ribellione, su come aveva fatto lui ad uscire da Bromley e su come avremmo potutoimitarlo.
Quella squallida periferia, immersa nel perbenismo e nelle rigide divisioni del classismo dell’Inghilterra di quell’epoca, soffocava i ragazzi della mia generazione così come era stata soffocante per David. Lui ce l’aveva fatta ad abbattere quel muro, speravamo di riuscirci anche noi: perciò ebbe un’enorme influenza nei giovani di allora. La sua canzone Rebel, rebel, che ascoltavo e riascoltavo incessantemente, suonava anche per me e per tutti quelli come me, perché tutti noi con i capelli lunghi e decisi a rompere con le tradizioni ci sentivamo dei ribelli. Questo è stato il mio primo contatto con Bowie.
Poi siamo diventati buoni amici e per un certo periodo di tempo, a metà degli anni Novanta, ci siamo frequentati spesso. Cominciò quando David compose la colonna sonora per il film televisivo in quattro episodi della Bbc tratto dal mio romanzo Il budda delle periferie.
Andai in Svizzera nello studio di registrazione in cui Bowie scriveva la musica e la prima volta che l’ascoltai ebbi la sfrontataggine di notare che mancava qualcosa. David andò a casa, riscrisse tutto da capo e dopo un paio di giorni me la fece riascoltare.
Lo racconto solo per dire quanto fosse disponibile, gentile e pronto a recepire l’opinione altrui, nonostante fosse già una celebrità. In pubblico, nei concerti, nei suoi video musicali, interpretava il ruolo di un alieno sotto varie forme, ma in privato si rivelò a me come una persona estremamente normale, nel senso che non si dava arie, non si era montato la testa, non si uniformava allo stereotipo della rock star stravagante. Si comportava come un autentico gentiluomo. Un tipo ordinario, lo si sarebbe potuto definire, sebbene dal punto di vista artistico fosse di un talento straordinario. Collaborando insieme per quel telefilm e in seguito in altri progetti, da un libro che lui doveva illustrare e io scrivere a tante conversazioni sui Ziggy Stardust e altre storie, sperimentai anche le sue doti di grande lavoratore, carico di energia e passione.
Musicalmente è stato uno dei grandi del pop in tutte le sue forme, un camaleonte capace di saltare da un genere all’altro pur restando sempre fedele al proprio timbro unico e originale. Era sempre lo stesso e sempre differente. Mi sentirei di metterlo su un podio ideale della musica del nostro tempo insieme a Elvis, ai Beatles e a Bob Dylan, solo che David ha probabilmente avuto più influenza perfino di Dylan sulla musica e sui musicisti venuti dopo.
Dal punto di vista artistico era un musicista sempre all’avanguardia che tuttavia riusciva anche a essere popolare, a piacere a tutti e subito, pur rimanendo inconfondibile per il suo stile. Se c’è un artista a cui lo paragonerei è Pablo Picasso, proprio per questa capacità di andare contro corrente riuscendo lo stesso a cavalcare l’onda del grande successo di massa. Un innovatore, un rivoluzionario, ma capace di rendere ogni sua svolta adatta allo spirito del tempo, comprensibile a tutti.
Non faccio a caso il paragone con il grande pittore, perché David era un artista nel senso pieno del termine. In effetti il suo talento trascendeva la musica, sconfinando nel cinema, nelle lettere, nell’arte perché era lui stesso pittore, nel fashion per l’influenza che ha avuto il suo modo di vestire. Ed è stato un ribelle anche in senso sociale, rivoluzionando i costumi con la sua ambiguità sessuale, precedendo i tempi, aprendo la strada verso il futuro. Un genio incredibilmente scaturito dal buio della periferia inglese degli anni 50 e 60.
Voglio credere che il genio riesca sempre a imporsi, ma uscire oggi da quella stessa periferia è più difficile, perché gli anni 60-70 furono un periodo di grandi sommovimenti sociali, in Inghilterra e in tutto l’Occidente. Allora e per un certo periodo di tempo l’arte usciva proprio dalle periferie, dai ghetti urbani, da ragazzi poveri come lo era Bowie e come lo sono stato io. Mentre ora viviamo in una società paradossalmente più élitaria, in cui molti artisti non a caso provengono dalle classi privilegiate.
David ci ha lasciati, ma per fortuna rimane il suo messaggio, Rebel, rebel, a ricordarci che non bisogna mai arrendersi al conformismo, alla diseguaglianza e al moralismo.
( testo raccolto da Enrico Franceschini. L’ultimo libro di Kureishi è “ Un furto” pubblicato da Bompiani)

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Gianfranco Ravasi per Il Sole 24 Ore
Èquesto, un ricordo molto specifico di David Bowie che nasce da un mio ormai antico ascolto orientato a scoprire la sua segreta e implicita spiritualità. Un’inquietudine di fondo lo ha sempre accompagnato. Eppure in pochi l’avevano colta, ad esempio, all’epoca di «Station to Station». In quell’occasione lo stesso artista, che cinque anni prima aveva affidato la missione della salvezza agli alieni, si dedicava alla contemplazione delle stazioni della Croce nell’album che rifletteva i suoi anni più neri.
Pregava, nel buio delle dipendenze e delle sue domande laceranti: Lord, I kneel and offer you my word on a wing And I’m trying hard to fit among your scheme of thing («Signore, mi inginocchio e ti offro la mia parola su un’ala / e cerco disperatamente di trovare un mio spazio nel tuo ordine delle cose»).
Ma la ricerca non era finita, e non aveva smesso di tormentarlo, alimentando la sua arte. Da quei giorni – lo raccontava lui stesso – per anni ha indossato un piccolo crocifisso d’argento. La sua era una domanda lanciata verso l’alto e il mistero, certo, più che una risposta ottenuta. Così, Bowie cercava di capire il senso della preghiera in «Loving the alien» (1984), quando si chiedeva se le invocazioni a Dio celassero al loro interno la verità, se la religione non fosse credere – ancora una volta – soltanto in un alieno: And your prayers they break the sky in two / You pray till the break of dawn («E le tue preghiere tagliano il cielo in due / Tu preghi fino al sorgere dell’alba»). Impossibile contare le citazioni, i riferimenti di David Bowie alla spiritualità, tormentata e angosciata, ma mai esclusa dalla sua vita.
«Sono un giovane uomo in contrasto con la Bibbia. Ma non fingo che la fede non serva a niente, quando siamo in ginocchio a pregare alla fermata dell’autobus» scriveva in «Bus stop». L’arrivo di Gesù sulla terra lo lasciava con un misto di speranza e di incredulità. Eppure non ha mai abbandonato questa parte della sua anima, non ha mai smesso di chiedere un segno a Dio: «Apri il tuo cuore a me / Mostrami tutto ciò che sei / E io sarò il tuo schiavo ... / Dammi la pace interiore almeno / Mostrami tutto ciò che sei / Apri il tuo cuore a me» («I would be your slave», 2002). Ci scherzava, talvolta, come quando nel 2003 dichiarò: «Non sono ateo e questo mi preoccupa, ma datemi un paio di mesi!». Confessava, con il sorriso sulle labbra, che avanzando negli anni i suoi interrogativi erano diminuiti di numero ma erano sempre più profondi e laceranti.
Viva era la sua tensione morale che gli aveva fatto dire: «C’è una crescita di conoscenza che non è vera evoluzione. Dal punto di vista etico, l’umanità non progredisce. Come animali non siamo cambiati: uccidiamo e cerchiamo di sopravvivere». Questa stessa tensione morale probabilmente si ritrova in «Blackstar», l’ultimo suo lavoro, uscito due giorni prima della sua morte, che ovviamente non conosco. Sono però certo che questo originale protagonista della musica contemporanea parlerà a suo modo ancora una volta della spiritualità, stando sempre sul confine labile tra sacro e profano, dove la sua voce in passato riusciva – sia pure “laicamente” – a far vibrare l’anima anche di coloro che non sanno inquietare le loro coscienza.

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Francesco Prisco per Il Sole 24 Ore
Per un dandy la vita va intesa come un’opera d’arte. L’ideologo del glam rock, che del dandismo è stato la declinazione musicale postmoderna, non solo in vita si è attenuto scrupolosamente a questo assunto, ma si è addirittura spinto sino a trasformare la propria morte in un concept estremo: David Bowie – rockstar di prima grandezza, attore cinematografico e innumerevoli altre cose che hanno a che fare con l’arte – è scomparso domenica 10 gennaio, «circondato dalla sua famiglia dopo 18 mesi di coraggiosa battaglia contro il cancro», recitava ieri una nota sul suo profilo Facebook.
Due giorni dopo il suo 69esimo compleanno che andava a coincidere con la pubblicazione di «Blackstar», proprio 28esimo album nonché testamento musicale, un’indefinibile e straordinaria miscela di electro pop, free jazz, art rock e rumorismo minimalista che rappresenta di sicuro il miglior lavoro del Duca Bianco dagli anni Ottanta a questa parte. Una “Stella Nera” per chiudere la propria parabola umana con la stessa originalità che ne aveva contraddistinto quella artistica. Con lui se ne va un pezzo fondamentale dell’immaginario British: non è un caso se a celebrare l’argomento intervengano il premier David Cameron («Era il maestro del reinventarsi»), il suo illustre predecessore Tony Blair («Artista geniale») e persino l’arcivescovo di Canterbury. Alla faccia del titolo di baronetto rifiutato con indifferenza qualche anno fa dal musicista, al contrario di tanti illustri colleghi. Che oggi – da Paul McCartney ai Rolling Stones – lo salutano con affetto, come fa la gente comune che in queste ore depone fiori davanti alla sua abitazione di New York o si reca in pellegrinaggio al murales di Brixton che lo ritrae con il make up di Aladdin Sane.
È proprio in quel sobborgo di Londra, negli anni Quaranta non ancora colonizzato dagli immigrati caraibici, che comincia tutto. David Robert Jones nasce da una cassiera di cinema e un reduce della Seconda guerra mondiale, si innamora presto del rock and roll tanto che, ancora bambino, rivela al suo insegnante che un giorno diventerà l’Elvis britannico, poi prende lezioni di sax. Là fuori esplode la Swinging London, lui debutta a vent’anni con l’album omonimo in pieno territorio mod, ma si fa notare soltanto nell’estate del 1969, quella dell’allunaggio, grazie a «Space Oddity», un pezzo su un astronauta che si perde in orbita. Tema ricorrente, quello dello spazio, tanto che nel biennio 71-72 infila il singolo «Life on Mars?» e s’inventa il concept di Ziggy Stardust, alieno precipitato sulla terra mentre l’umanità viaggia verso l’apocalisse. È la rivoluzione del glam e Bowie la incarna come interprete, produttore (in larga parte suo il successo di «Transformer» di Lou Reed e «Lust for Life» di Iggy Pop) e viveur (tra i suoi innumerevoli flirt, quelli con Amanda Lear e Mick Jagger). Il punto più alto della sua produzione è probabilmente la trilogia berlinese di «Low», «Heroes» e «Lodger», quando scopre l’elettronica, ma il Nostro non rinuncia a fare quattro salti in disco («Let’s dance») e a influenzare gran parte di ciò che ascolteremo negli anni Ottanta («Scary Monster»).
È stato un instancabile sperimentatore, non solo sul versante artistico: nel 1997 lanciò i Bowie Bonds, obbligazioni decennali legate ai diritti del suo songbook con un rendimento annuo del 7,9% che andarono esauriti nel giorno di lancio, consentendogli di incassare subito 55 milioni di dollari. L’anno scorso il «Sunday Times» ne ha stimato le fortune in 135 milioni di sterline. Per fare il dandy fino in fondo, ti serve un patrimonio di tutto rispetto.

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Mogol per Il Messaggero

L’ho incontrato una volta soltanto David Bowie. Ma era un’occasione speciale. Mi avevano chiesto di realizzare la versione italiana del suo successo Space Oddity. Allora, siamo nel 1969, si usava, ma era lui che l’aveva chiesto insieme al suo staff. In sala di incisione a Roma ci siamo salutati, ci siamo scambiati quattro parole di circostanza, ma ricordo che era un bel ragazzo giovane, un tipo molto gentile e disponibile, assolutamente non montato, come sono tutti i grandi. Sono sempre le mezze cartucce che si montano la testa senza averne i mezzi.
La storia di Space Oddity, che in italiano diventò Ragazzo solo, ragazza sola, è questa. Dunque, quando mi chiamarono per lavorarci, provai a leggere il testo. Francamente non ci si capiva granché. Era abbastanza criptico. Così decisi di fare come avevo fatto per Whiter shade of pale dei Procol Harum, anche quello un pezzo il cui testo era intraducibile in italiano. Lo feci ex novo, come se si trattasse di scrivere su un brano musicale inedito. Bowie lo cantò con la sua voce dal forte accento inglese, probabilmente senza capire cosa diceva il testo, con qualche difficoltà per la pronuncia delle parole italiane. Il pezzo però era bello, a lui piaceva, e fu un buon successo. Poi, anni dopo, ha ispirato anche Bernardo Bertolucci quando l’ha inserita nel suo film Io e te, girato nel 2012. Ma non è questa l’unica occasione in cui ho avuto rapporti, sia pure indiretti, con Bowie. Fu lui, a sua volta, a decidere di tradurre in ingleseIo vorrei, non vorrei, ma se vuoi, il grande successo mio e di Lucio Battisti. Ne fece una versione che si intitolava in modo misteriosoMusic is lethal che venne incisa dal chitarrista di David, Mick Ronson. E questa seconda collaborazione ha sicuramente permesso di lanciare e promuovere questo pezzo in tutto il mondo.
Devo dire che mi dispiace molto che se ne sia andato, anche in un’età piuttosto giovane, e penso che abbia fatto bene a nascondere la gravità della sua malattia. A nessuno piace rendere pubbliche queste cose. Era sicuramente un artista molto bravo che non ha conquistato il successo a caso. Allora era considerato abbastanza di avanguardia. Ma si adattò benissimo alla versione italiana di Ragazzo solo, ragazza sola