PENSAVAMO fosse il lugubre presagio di un secolo che fa scempio della bellezza, in realtà la stella nera era un muto epitaffio. O forse entrambe le cose. David Bowie, al secolo David Robert Jones, ucciso dal cancro domenica notte a New York dopo aver lottato per 18 mesi, aveva coscientemente concepito Blackstar, l’album pubblicato l’8 gennaio (giorno del 69° compleanno), come un addio definitivo, lo conferma anche lo storico produttore Tony Visconti, che sta allestendo un tribute concert alla Carnegie Hall per il 31 marzo. Sapeva che il tempo era scaduto, che gli restavano solo minuti per dire l’ultima. Chissà quanti avranno abbassato gli occhi per aver denunciato la sua incapacità di scrivere un’altra Space oddity o un’altra The Man who sold the world o un’altra Life on Marsmentre lui porgeva al mondo il De Profundis più vicino alle dissonanze berlinesi di fine anni 70 (la trilogia Low, Heroes e
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Anna Bandettini per la Repubblica
SONO PASSATI cinquant’anni da quando, a Londra, si erano amati con passione, poco meno da quando nel ‘72 cambiarono il rock con The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars. Per Lindsay Kemp, che oggi vive a Livorno, insegna e porta in giro il suo spettacolo Kemp dances, dovrebbero essere solo ricordi. Invece basta niente per riaccendere le emozioni del suo trasgressivo e creativo legame con David Bowie. «Sono triste, ma ricordo con gioia le cose che abbiamo fatto. David ci ha dato piacere, anche incoraggiando le persone a essere più aperte, per esempio in fatto di omosessualità e bisessualità».
Signor Kemp, sa che anche il Vaticano ha espresso il suo cordoglio?
«Sono felice. È un modo per recuperare sul terreno dell’omofobia. Mi pare che Francesco stia lavorando in questo senso».
Lei e Bowie vi conosceste nel 1966: lei era già un ballerino affermato. E Bowie?
«Aveva 19 anni. Era uno sconosciuto. Venne in camerino a Londra dopo un mio spettacolo. Un ragazzo brillante. Voleva studiare con me. L’indomani tornò con la chitarra a dodici corde e una bellissima canzone, When I live my dream, che io misi nello spettacolo».
E poi?
«Fu amore a prima vista. Forse il più grande della mia vita».
E per Bowie?
«Non so se per lui fu altrettanto profondo.
David veniva alle mie lezioni, andavamo a vedere spettacoli, ci divertivamo molto. Insieme facemmo Pierrot in Turquoise. Io gli insegnavo a esprimersi con il corpo, a truccarsi, a scegliere i costumi. Creammo il body symbol. Era biondo, bello, molto charming, ma anche esigente e aveva bisogno di nursering ».
Forse per questo poi ebbe anche relazioni con donne.
«Che gelosia. Quando David mi lasciò per la costumista del nostro show, Natasha Korlinov, fu terribile. Tentai il suicidio».
Suicidio?
«Non fu una cosa seria. Ma soffro ancora della sua infedeltà. Dalla passione nacque una bella amicizia, tanto che nel ‘72 la moglie di David, Mary Angela Barnett, Angie, mi chiese di dirigere lo show Ziggy Stardust ».
Di chi fu l’invenzione del personaggio di Ziggy?
«Di David. Io ne feci un simbolo della sua musica. Lui mi aveva fatto sentire l’album, le cover di Jacques Brel, Lady Stardust. Io ci misi l’ispirazione all’arte giapponese, Artaud, Jean Genet, l’avanguardia. Inventammo il glam: per la prima volta il teatro irrompeva nel rock».
Perché finì tra voi?
«Perché David divenne una superstar. Anche se capace con coraggio di influenzare milioni di fan. Non lo vedevo da tempo, non sapevo che stava così male. Ma le persone che ami non muoiono mai».
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Gino Castaldo per la Repubblica
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Gabriele Romagnoli per la Repubblica
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Hanigf Kureishi per la Repubblica
DAVID Bowie ed io siamo andati nella stessa scuola di Bromley, il quartiere di South London dove eravamo cresciuti, ma a una decina d’anni di distanza, quelli che ci separavano. Eppure gli insegnanti non se l’erano dimenticato. Una professoressa un po’ antipatica mi avvertiva che, se avessi continuato a fare il ribelle, avrei fatto la stessa fine di Bowie: non so bene cosa intendesse, ma per me era un complimento. Un altro professore, quello di arte, era lo stesso che aveva avuto David: con lui abbiamo fatto tante discussioni su Bowie, sul suo messaggio di ribellione, su come aveva fatto lui ad uscire da Bromley e su come avremmo potutoimitarlo.
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Gianfranco Ravasi per Il Sole 24 Ore
Èquesto, un ricordo molto specifico di David Bowie che nasce da un mio ormai antico ascolto orientato a scoprire la sua segreta e implicita spiritualità. Un’inquietudine di fondo lo ha sempre accompagnato. Eppure in pochi l’avevano colta, ad esempio, all’epoca di «Station to Station». In quell’occasione lo stesso artista, che cinque anni prima aveva affidato la missione della salvezza agli alieni, si dedicava alla contemplazione delle stazioni della Croce nell’album che rifletteva i suoi anni più neri.
Pregava, nel buio delle dipendenze e delle sue domande laceranti: Lord, I kneel and offer you my word on a wing And I’m trying hard to fit among your scheme of thing («Signore, mi inginocchio e ti offro la mia parola su un’ala / e cerco disperatamente di trovare un mio spazio nel tuo ordine delle cose»).
Ma la ricerca non era finita, e non aveva smesso di tormentarlo, alimentando la sua arte. Da quei giorni – lo raccontava lui stesso – per anni ha indossato un piccolo crocifisso d’argento. La sua era una domanda lanciata verso l’alto e il mistero, certo, più che una risposta ottenuta. Così, Bowie cercava di capire il senso della preghiera in «Loving the alien» (1984), quando si chiedeva se le invocazioni a Dio celassero al loro interno la verità, se la religione non fosse credere – ancora una volta – soltanto in un alieno: And your prayers they break the sky in two / You pray till the break of dawn («E le tue preghiere tagliano il cielo in due / Tu preghi fino al sorgere dell’alba»). Impossibile contare le citazioni, i riferimenti di David Bowie alla spiritualità, tormentata e angosciata, ma mai esclusa dalla sua vita.
«Sono un giovane uomo in contrasto con la Bibbia. Ma non fingo che la fede non serva a niente, quando siamo in ginocchio a pregare alla fermata dell’autobus» scriveva in «Bus stop». L’arrivo di Gesù sulla terra lo lasciava con un misto di speranza e di incredulità. Eppure non ha mai abbandonato questa parte della sua anima, non ha mai smesso di chiedere un segno a Dio: «Apri il tuo cuore a me / Mostrami tutto ciò che sei / E io sarò il tuo schiavo ... / Dammi la pace interiore almeno / Mostrami tutto ciò che sei / Apri il tuo cuore a me» («I would be your slave», 2002). Ci scherzava, talvolta, come quando nel 2003 dichiarò: «Non sono ateo e questo mi preoccupa, ma datemi un paio di mesi!». Confessava, con il sorriso sulle labbra, che avanzando negli anni i suoi interrogativi erano diminuiti di numero ma erano sempre più profondi e laceranti.
Viva era la sua tensione morale che gli aveva fatto dire: «C’è una crescita di conoscenza che non è vera evoluzione. Dal punto di vista etico, l’umanità non progredisce. Come animali non siamo cambiati: uccidiamo e cerchiamo di sopravvivere». Questa stessa tensione morale probabilmente si ritrova in «Blackstar», l’ultimo suo lavoro, uscito due giorni prima della sua morte, che ovviamente non conosco. Sono però certo che questo originale protagonista della musica contemporanea parlerà a suo modo ancora una volta della spiritualità, stando sempre sul confine labile tra sacro e profano, dove la sua voce in passato riusciva – sia pure “laicamente” – a far vibrare l’anima anche di coloro che non sanno inquietare le loro coscienza.
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Francesco Prisco per Il Sole 24 Ore
Per un dandy la vita va intesa come un’opera d’arte. L’ideologo del glam rock, che del dandismo è stato la declinazione musicale postmoderna, non solo in vita si è attenuto scrupolosamente a questo assunto, ma si è addirittura spinto sino a trasformare la propria morte in un concept estremo: David Bowie – rockstar di prima grandezza, attore cinematografico e innumerevoli altre cose che hanno a che fare con l’arte – è scomparso domenica 10 gennaio, «circondato dalla sua famiglia dopo 18 mesi di coraggiosa battaglia contro il cancro», recitava ieri una nota sul suo profilo Facebook.
Due giorni dopo il suo 69esimo compleanno che andava a coincidere con la pubblicazione di «Blackstar», proprio 28esimo album nonché testamento musicale, un’indefinibile e straordinaria miscela di electro pop, free jazz, art rock e rumorismo minimalista che rappresenta di sicuro il miglior lavoro del Duca Bianco dagli anni Ottanta a questa parte. Una “Stella Nera” per chiudere la propria parabola umana con la stessa originalità che ne aveva contraddistinto quella artistica. Con lui se ne va un pezzo fondamentale dell’immaginario British: non è un caso se a celebrare l’argomento intervengano il premier David Cameron («Era il maestro del reinventarsi»), il suo illustre predecessore Tony Blair («Artista geniale») e persino l’arcivescovo di Canterbury. Alla faccia del titolo di baronetto rifiutato con indifferenza qualche anno fa dal musicista, al contrario di tanti illustri colleghi. Che oggi – da Paul McCartney ai Rolling Stones – lo salutano con affetto, come fa la gente comune che in queste ore depone fiori davanti alla sua abitazione di New York o si reca in pellegrinaggio al murales di Brixton che lo ritrae con il make up di Aladdin Sane.
È proprio in quel sobborgo di Londra, negli anni Quaranta non ancora colonizzato dagli immigrati caraibici, che comincia tutto. David Robert Jones nasce da una cassiera di cinema e un reduce della Seconda guerra mondiale, si innamora presto del rock and roll tanto che, ancora bambino, rivela al suo insegnante che un giorno diventerà l’Elvis britannico, poi prende lezioni di sax. Là fuori esplode la Swinging London, lui debutta a vent’anni con l’album omonimo in pieno territorio mod, ma si fa notare soltanto nell’estate del 1969, quella dell’allunaggio, grazie a «Space Oddity», un pezzo su un astronauta che si perde in orbita. Tema ricorrente, quello dello spazio, tanto che nel biennio 71-72 infila il singolo «Life on Mars?» e s’inventa il concept di Ziggy Stardust, alieno precipitato sulla terra mentre l’umanità viaggia verso l’apocalisse. È la rivoluzione del glam e Bowie la incarna come interprete, produttore (in larga parte suo il successo di «Transformer» di Lou Reed e «Lust for Life» di Iggy Pop) e viveur (tra i suoi innumerevoli flirt, quelli con Amanda Lear e Mick Jagger). Il punto più alto della sua produzione è probabilmente la trilogia berlinese di «Low», «Heroes» e «Lodger», quando scopre l’elettronica, ma il Nostro non rinuncia a fare quattro salti in disco («Let’s dance») e a influenzare gran parte di ciò che ascolteremo negli anni Ottanta («Scary Monster»).
È stato un instancabile sperimentatore, non solo sul versante artistico: nel 1997 lanciò i Bowie Bonds, obbligazioni decennali legate ai diritti del suo songbook con un rendimento annuo del 7,9% che andarono esauriti nel giorno di lancio, consentendogli di incassare subito 55 milioni di dollari. L’anno scorso il «Sunday Times» ne ha stimato le fortune in 135 milioni di sterline. Per fare il dandy fino in fondo, ti serve un patrimonio di tutto rispetto.
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Mogol per Il Messaggero
L’ho incontrato una volta soltanto David Bowie. Ma era un’occasione speciale. Mi avevano chiesto di realizzare la versione italiana del suo successo Space Oddity. Allora, siamo nel 1969, si usava, ma era lui che l’aveva chiesto insieme al suo staff. In sala di incisione a Roma ci siamo salutati, ci siamo scambiati quattro parole di circostanza, ma ricordo che era un bel ragazzo giovane, un tipo molto gentile e disponibile, assolutamente non montato, come sono tutti i grandi. Sono sempre le mezze cartucce che si montano la testa senza averne i mezzi.
La storia di Space Oddity, che in italiano diventò Ragazzo solo, ragazza sola, è questa. Dunque, quando mi chiamarono per lavorarci, provai a leggere il testo. Francamente non ci si capiva granché. Era abbastanza criptico. Così decisi di fare come avevo fatto per Whiter shade of pale dei Procol Harum, anche quello un pezzo il cui testo era intraducibile in italiano. Lo feci ex novo, come se si trattasse di scrivere su un brano musicale inedito. Bowie lo cantò con la sua voce dal forte accento inglese, probabilmente senza capire cosa diceva il testo, con qualche difficoltà per la pronuncia delle parole italiane. Il pezzo però era bello, a lui piaceva, e fu un buon successo. Poi, anni dopo, ha ispirato anche Bernardo Bertolucci quando l’ha inserita nel suo film Io e te, girato nel 2012. Ma non è questa l’unica occasione in cui ho avuto rapporti, sia pure indiretti, con Bowie. Fu lui, a sua volta, a decidere di tradurre in ingleseIo vorrei, non vorrei, ma se vuoi, il grande successo mio e di Lucio Battisti. Ne fece una versione che si intitolava in modo misteriosoMusic is lethal che venne incisa dal chitarrista di David, Mick Ronson. E questa seconda collaborazione ha sicuramente permesso di lanciare e promuovere questo pezzo in tutto il mondo.
Devo dire che mi dispiace molto che se ne sia andato, anche in un’età piuttosto giovane, e penso che abbia fatto bene a nascondere la gravità della sua malattia. A nessuno piace rendere pubbliche queste cose. Era sicuramente un artista molto bravo che non ha conquistato il successo a caso. Allora era considerato abbastanza di avanguardia. Ma si adattò benissimo alla versione italiana di Ragazzo solo, ragazza sola