il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2016
Giorgio Colangeli, l’attore che è arrivato tardi al cinema
Le parole sono importanti: “Se mi chiamano ‘caratterista’ non mi offendo. Da Gianni Agus a Mario Carotenuto, per restare solo in Italia, ne abbiamo avuti di bravissimi”. In un bar dell’Esquilino, nella via romana che Gadda consegnò alla letteratura, Giorgio Colangeli riflette su una parabola professionale “che è stata lenta, anzi lentissima”.
Alla meta è arrivato tardi: “La prima comparsata al cinema, perché di questo si trattava, l’ho fatta nel Pasolini di Marco Tullio Giordana a 46 anni” e oggi che le stagioni sono 66 e i capelli ormai bianchissimi – giura – non ha nessun rimpianto: “Tante volte mi sono chiesto chi me lo facesse fare, oggi non me lo domando più”. In due decenni, strappato al teatro per bambini e alle cantine “in cui lo sperimentalismo confinava con l’autoreferenzialità”, Colangeli ha recitato per Scola, Sorrentino, Vicari, Rubini, Luchetti, Papaleo, Genovese, Messina e per un’altra trentina di registi. Quando, prima di Nastro d’Argento e David di Donatello, vinse il primo vero premio della sua vita al Festival di Roma del 2006, Sabrina Ferilli, deputata a consegnarglielo, confessò di non sapere chi fosse: “Andò proprio così”.
Colpa sua o della distrazione di Ferilli?
Credo mia. Ero un invisibile, ma non rimprovero nessuno. Per tanto tempo ho pensato solo al teatro. Al cinema andavo da spettatore senza pensare che mi sarei potuto trovare dall’altra parte. L’idea di non avere il pubblico davanti e di non ‘sentirlo’ mi pareva insopportabile.
Invece dall’altra parte lei arrivò?
A scuotermi e darmi la spinta fu un manifesto teatrale. A fine Anni 80, per la regia di Calenda, recitai ne L’aria del continente. Un testo di Nino Martoglio con un altro Nino, Frassica, come protagonista ed esordiente assoluto. Frassica veniva dal successo di Quelli della notte e di Indietro tutta. Era popolare come la Coca-Cola. Sembrava la Madonna, con lui non si poteva fare un passo per strada senza essere assaliti.
Ci diceva che l’illuminazione utile a mettersi in gioco venne dal manifesto dello spettacolo.
Il volto di Frassica lo occupava per intero e i nomi del resto del cast, tra cui fior di attori come Pietro De Vico, un signore che aveva lavorato con Eduardo De Filippo, Dino Risi, Comencini e De Sica, apparivano piccoli sullo sfondo. Come si dice in gergo, in ‘sottoditta’. Quel manifesto mi aprì gli occhi sul potere della televisione: ‘Qui se non mi sbrigo rimango a fare il secondo alabardiere per tutta la vita’, mi dissi. E mi diedi da fare.
Prima cosa aveva fatto?
Gliel’ho detto, teatro. Nient’altro che teatro.
E come si manteneva?
Facendo l’insegnante. Qualche cattedra a tempo determinato, qualche supplenza. Capii in fretta che non era il mio mestiere. L’insegnante è abbandonato a se stesso. È in trincea. Dietro di sé non ha niente. È un soldato lasciato al fronte da un esercito che gli dice tutti i giorni: ‘Non siamo in ritirata, tu cavatela per conto tuo’. Alla lunga con una missione così solitaria e frustrante sarei andato ai pazzi.
Addirittura?
Voglio piacere, mi rifiuto di deludere, soffro se non ho l’approvazione collettiva. Pensi che disastro sarei stato con gli alunni. Mi sarei buttato a corpo morto nell’impresa e alla fine l’impresa mi avrebbe ammazzato.
Su di lei ci sono poche informazioni. Qualcuno le riconosce una laurea in Fisica nucleare.
Troppa grazia. Ho preso soltanto la laurea in Fisica. Anche se in Italia non c’è laureato in Fisica che non abbia guardato a Enrico Fermi e ai ragazzi di via Panisperna con ammirazione.
Perché si laureò in Fisica?
Non certo per vocazione. Avevo frequentato il Liceo Classico e per le materie scientifiche non ero portato. Mi stancai presto e mi laureai con enorme fatica solo per dare una soddisfazione ai miei genitori. Avevano messo al mondo cinque figli, che si laureassero tutti era dato per scontato.
È avvenuto?
Con quattro figli su cinque. L’ultimo ne ha fatto a meno. Vive benissimo lo stesso.
Famiglia d’origine?
Agiata e piccolo borghese. Una famiglia di inurbati, il padre di mio padre era un pastore abruzzese che faticava per un grosso proprietario terriero con tanto di tenuta sulla via Tiburtina. Raccontava della visita del Duce e di una cavalcata giovanile con Edda Ciano che non aveva più dimenticato.
E i suoi genitori?
Madre casalinga, padre agente di commercio per la Montecatini, anni prima che la stessa si fondesse con Edison. La Montecatini all’epoca si occupava anche dell’estrazione del marmo. Papà lo vendeva. Aveva commesse importanti: l’aula Nervi del Vaticano, i marmi di via della Conciliazione. Il lavoro però rimaneva fuori dalla porta. Quando telefonavano a casa per cercarlo ci faceva l’occhiolino e parlava a bassa voce: ‘Dite che non ci sono’. A svicolare e a mentire si impara fin da bambini.
Per diventare attore dovette mentire?
Non ce ne fu bisogno, ma se le dicessi che i miei erano favorevoli all’idea mentirei adesso.
Erano contrari.
Contrarissimi. Io però mia madre la ringrazio. Se non si fosse opposta con tanta veemenza forse avrei mollato. Avercela contro e sentirla demolire ogni giorno la mia aspirazione rappresentò uno stimolo importante. Volevo dimostrarle che si sbagliava. Come dicono a Roma, intignai.
Che significa?
Insistetti. Non mi arresi. Non gliela diedi vinta.
Hanno fatto in tempo a vedere un po’ del suo successo?
Quasi niente.
E le dispiace?
Ho sempre cercato il consenso. Ho sempre voluto che qualcuno mi dicesse ‘bravo’.
Non lo ammetterebbero in molti.
Non mi ricordo chi disse che non esistono attori, ma soltanto attrici. È verissimo. Per fare questo lavoro un po’ di narcisismo devi averlo.
Un posto di lavoro normale le faceva orrore?
Orrore no, però recitare è stato un modo di fuggire dai lavori che prevedevano un orario di ingresso e di uscita, un cartellino da timbrare, un impegno certo. Non volevo essere inquadrato. Non volevo morire in ufficio. Nel ’74, dopo la laurea e dopo aver fatto il presidente di seggio al referendum sul divorzio, divorziai anch’io.
Da chi?
Dall’illusione di poter essere felice con un impiego normale. Nel mio settore, l’informatica, c’era un’espansione pazzesca. Anche se nessuno pensava che il computer avrebbe dominato il mondo come poi è accaduto, per chi si occupava di elaboratori o come si diceva allora romanticamente di ‘cervelli elettronici’, il lavoro non mancava. Venivano a reclutarci fin sui banchi dell’università.
Ma lei la divisa non se la mise.
In realtà ne ho indossate più di quante oggi non riesca a ricordarne.
I mille ruoli di oggi però ieri non c’erano.
Ho avuto i miei periodi di crisi, ma sono testardo. Forse ho fatto l’attore per curarmi. Il teatro era molto terapeutico. Gli Anni 70, nonostante la violenza e l’ideologia a volte opprimente e nonostante tra una mazzata e l’altra rossi e neri fossero soldati di una vera e propria orrenda guerra civile, me li ricordo fervidi e felici.
Quelli del ’49, quelli come lei, non avevano visto la guerra.
La generazione di mio padre ha vissuto un improvviso miglioramento delle condizioni economiche. Le macchine, i frigoriferi, i cessi non più in comune. Con noi l’incremento si è fermato. Nonostante la tecnologia e fatte le debite proporzioni, è come se fossimo tornati indietro. Ma a non avere niente non siamo abituati. E quindi siamo in crisi.
Manca il lavoro.
In Italia se vuoi lavorare, lavori. In realtà il lavoro esiste. Ma sono cambiate le condizioni per ottenerlo. Sono peggiorate.
Lei prima ci ha detto che il teatro è stato terapeutico. Da cosa doveva curarsi?
Chi vuole piacere a tutti i costi non riesce mai a piacersi. È sempre insoddisfatto. Sempre scontento. Anche quando raggiunge l’obiettivo che si era prefisso. Per fortuna mio figlio è psicologo. Se ho un problema o una difficoltà ormai ci pensa lui.
Giorgio Colangeli non riesce a godere dei propri successi?
Esattamente. Non mi godo mai quello che conquisto. Sono costantemente inseguito da una sensazione di incompiutezza.
Però lavora moltissimo.
Mi piace il set. Mi diverte. Alla fine amo il cinema perché lo vivo da teatrante. Non sono mai teso per il risultato finale del film al quale in fondo contribuisco in minima parte. Decidono il regista, il produttore, il montatore. Preoccuparsi mi è sempre parso inutile.
Cosa ama del set?
Come le dicevo amo essere amato. E allo scopo mi impegno. Non è che mi venga naturale. Farmi volere bene dalla troupe è un obiettivo che perseguo. Quasi un secondo lavoro.
Grimaldi, Faenza, Pontecorvo, Campiotti e ora Lucio Pellegrini per Tutto può succedere. Da molti anni si divide tra cinema e tv.
L’epoca in cui gli attori teatrali potevano permettersi ripulsa verso la tv è finita da un pezzo e aggiungo, per fortuna.
Quindi la tv non le dispiace.
Dipende. Esiste un problema di sceneggiature. La scrittura è spesso standardizzata: deve corrispondere al prodotto, indirizzare verso un genere di consumo e uno stile di vita. Però esiste una televisione, anche seriale, che non ha niente da invidiare al cinema.
Chi le offrì l’occasione di recitare al cinema per la prima volta?
Rita Forzano, una delle prime persone che in Italia si preoccupò di organizzare il casting. In Pasolini. Un delitto italiano serviva un attore che ascoltasse Pelosi in un’aula di giustizia. Scelsero me. Non avevo neanche una battuta. Solo piani d’ascolto. Ma ero tra i molti che a quel film, pur di esserci, avrebbero partecipato anche indossando una maschera. C’erano Toni Bertorelli e Victor Cavallo. Victor era un attore strepitoso. Quando mi parlava di Cavallo, Daniele Costantini – un regista che non indulge mai al sentimentalismo e vive di grandi rimozioni – si commuoveva.
Dopo Giordana arrivò Ettore Scola.
Fui fortunato. Portai a teatro un testo della figlia Silvia in cui interpretavo un idraulico e mi ritrovai ingaggiato per La cena. Il mio ruolo avrebbe dovuto essere assegnato ad Antonello Fassari, ma Fassari titubò e così chiamarono me.
Un film corale, La cena, in cui lei divise il Nastro d’Argento per l’interpretazione maschile con Giancarlo Giannini e Vittorio Gassman.
Il vero premio fu poter passare qualche settimana su quel set. Eravamo pagati a forfait e convocati sempre, anche quando non era certo che avremmo girato. Trascorrevo ore ad ascoltare Fanny Ardant, Gassman, Riccardo Garrone, Venantino Venantini e Camillo Milli impegnati a riscrivere durante le pause la storia del cinema italiano tra un aneddoto e l’altro.
Lei per Scola ha recitato anche in Concorrenza sleale.
Ho recitato nei film del declino, film in cui nel migliore dei casi dello Scola più grande c’era solo la memoria. Ma Concorrenza sleale è stata un’opportunità per partecipare all’opera di un maestro che forse per l’ultima volta aveva a disposizione un budget rilevante e di vedere con i miei occhi un cinema che non c’è più.
Con Scola andava d’accordo?
Siamo due silenziosi, ma c’è stata fin dall’inizio una grande simpatia reciproca. Mi trattava da fratello minore: ‘Ciao Giorgè di qua, ciao Giorgè di là’. Fino a quando un giorno non si è reso conto che il rapporto di figliolanza, con uno che come me aveva superato i 50 anni da un bel po’, non andava poi così bene.
Per Paolo Sorrentino recitò in due film. Ne L’amico di famiglia è un finto avvocato, ne Il Divo interpreta Salvo Lima.
Paolo è un uomo misterioso. Un regista che sul lavoro non è molto comunicativo. A differenza di Marco Tullio Giordana che è una persona speciale, un comunicatore nato e custodisce ancora l’aspetto più nobile del proprio mestiere, la nozione originaria.
Dopo Pasolini, lei per Giordana è stato Federico Umberto D’Amato, direttore degli uffici riservati del Viminale in Romanzo di una strage.
Marco Tullio passava e mi diceva: ‘Sei bravissimo a fare il democristiano’.
Si è trovato meglio con Giordana che con Sorrentino?
Paradossalmente, forse sono stato meglio con Sorrentino. Essendo un comunicatore anch’io, con Giordana mi trovavo un po’ troppo nel mio campo d’azione.
E Sorrentino regista le piace?
Moltissimo. È l’unico a sapere raccontare e affascinare facendo a meno della storia. Rinuncia al copione e seduce con le immagini. Ci vuole un grande talento.
Al Festival di Venezia era ne L’attesa di Piero Messina con Juliette Binoche. Qualcuno ha gridato al prodigio. Altri alla sopravvalutazione.
Apprezzo Messina e ho fatto di tutto per esserci. Il film è molto interessante, ma paga un prezzo nell’essere stato girato con fin troppa padronanza. Di solito accade esattamente il contrario: in un esordio ti capita di vedere soprattutto l’inesperienza.
Quali sono le pecche de L’Attesa?
L’estremismo. Messina punta in una direzione e non si preoccupa di bilanciare o articolare un talento oggettivo. È come mangiare cibo straordinario senza limiti per poi sentirsi male. Detto questo e detto che Piero ha davanti a sé tantissimo tempo, che L’Attesa non abbia preso niente a Venezia è un peccato. Anche per il Centro Sperimentale di Cinematografia. Il film è un’espressione diretta del Centro.
Avrebbero dovuto premiarlo soltanto per questo?
Un premio a un’opera che nasce nella scuola sarebbe stato un chiaro segnale di interesse verso i giovani che iniziano questo mestiere. Si fanno tante operazioni inconfessabili e discutibili, questa sarebbe stata a fin di bene.
Lei parla di giovani, ma il pubblico ha scoperto il suo volto molto tardi.
Meglio così. Da giovane ero banalotto. Un bamboccione. Un belloccio inutile. La faccia interessante, se mi è venuta, mi è venuta da adulto.