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 2016  gennaio 10 Domenica calendario

Il nostro cervello crede di capire gli animali

Alcuni proprietari di cani avevano istruito i loro beneamati quadrupedi a non mangiare un biscotto quando loro non c’erano. Se poi il biscotto era sparito, i cani venivano sgridati sia che avessero disobbedito, sia che il biscotto fosse stato rimosso dallo sperimentatore all’insaputa dei padroni. I cani innocenti e quelli fedifraghi avevano un’espressione contrita: non era, come si sarebbe portati a credere, un’ammissione di colpa, di cui non potevano aver coscienza, ma l’espressione consueta alle sgridate dei loro signori. Abituati all’enorme espressività emotiva che una ventina di muscoli consentono alla nostra faccia, pensiamo che anche gli animali abbiano la stessa virtù. Non è così. Il cane cocker ci appare pensoso e malinconico, anche se non ne ha motivo e nemmeno sa che cosa sia. Il sonnacchioso koala australiano che abbraccia con tenerezza il tronco di bambù, attira affetto e simpatia irrefrenabili. In realtà sta abbarbicato al ramo perché è più fresco dell’ambiente e lui non può sudare. 
L’antropomorfismo, cioè l’attribuzione di caratteri, azioni e intenzione umani a esseri viventi che ci capitano a tiro, è un’insopprimibile tentazione del nostro cervello, che crea confusione ed equivoci, a volte divertenti. Non è però detto che le interpretazioni antropomorfiche siano per forza sbagliate. 
Gli animali sono nostri compagni di strada e condividiamo remoti antenati. Il libro della biologa Lisa Vozza e del neuroetologo Giorgio Vallortigara è una dettagliata, accurata, rigorosa, e spesso amena rassegna di ciò che ci accomuna e ci diversifica nella comunicazione con gli animali. Una ventina d’anni fa, la scoperta che i nostri geni sono il doppio, e non il quintuplo, come si pensava, di quelli dei lombrichi, suscitò una costernazione universale e mal riposta. Il dato confermava che la parentela fra gli esseri viventi è molto stretta. Eric Kandel, ad esempio, delle cui ricerche nel libro si parla diffusamente, ha scoperto i meccanismi della memoria, anche umana, studiandoli in un lumacone di mare. Si sa, dicono Vozza e Vallortigara, che il genoma della cipolla è dodici volte il nostro: fra la dimensione del genoma, ed anche del numero dei geni che codificano le proteine (sono circa il 2%) e la complessità dell’essere vivente e del suo modo di porsi in comunicazione con gli altri, non c’è relazione. Classificare “semplice” il sistema nervoso delle formiche, i cui pochi neuroni organizzano una vita sociale complicata e codificata fin nei minimi dettagli, e che soccorrono e liberano una compagna impigliata in un filo, è assurdo: il concetto di complessità e di perfezione non esprime nulla di ciò che avviene in natura. Animali con sistemi nervosi anche minuscoli, hanno il senso della quantità, del tempo e dello spazio. Vallortigara e Coll hanno fatto in questo campo, nel centro di neuroscienze dell’Università di Trento, a Rovereto, scoperte sorprendenti e molto importanti sui meccanismi della conoscenza, lavorando soprattutto con i pulcini. Gli esseri viventi realizzano quel che l’evoluzione concede di fare e nessuna specie è “più in alto” delle altre. Questa è, verosimilmente, la regola, che gli autori spiegano con chiarezza e dovizia d’esempi. Ribadiscono che la genetica e l’ambiente, il comportamento innato e quello appreso, lavorano insieme in maniera inestricabile a fare degli animali (e quindi anche di noi) ciò che sono.
Le neuroscienze cognitive pensano di cominciare a capire come avvenga l’interazione fra geni e ambiente. L’evoluzione lascia tracce che fanno capire il presente: è vero, come gli autori illustrano con diversi esempi, che i nostri lobi frontali, cui attribuiamo intelligenza e razionalità, non sono i più voluminosi della natura, ma nella parte del lobo sinistro in cui, nell’uomo, si crea il linguaggio, nelle scimmie antro-pomorfe, anche se non parlano, c’è una struttura più complessa che in quella di altri ominidi e meno complessa di quella umana. È lecito pensare che sia una tappa dell’evoluzione che solo in una specie è proseguita fino al linguaggio. Non è il volume che conta, ma l’organizzazione del parenchima cerebrale.
La rivoluzione della biologia è di aver capito che noi non siamo agenti esterni che osservano e cercano quel che c’è fuori di noi, ma che siamo parte di quel che cerchiamo. A studiare la natura sono i meccanismi cognitivi naturali del nostro cervello.