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 2016  gennaio 11 Lunedì calendario

Quo Vado spiegato da Gennaro Nunziante. Il regista di Zalone parla di posto fisso, di Pci ma anche di sé

Gennaro Nunziante, tu sei il regista, l’inventore dello zalonismo.
«Sono un suo amico, un suo complice, semmai».
Tutti si industriano per dare interpretazioni politiche del vostro film, tu sei l’unico che puoi fornire quella autentica.
«In questi giorni sui giornali leggo articoli ridicoli. Credo che molti di quelli che scrivono non capiscano nulla del nostro film...».
Si scrive sia che “Quo Vado” è un film iperliberista, a favore dei licenziamenti, sia il contrario.
«Fra poco ti spiego tutto. Ma “Quo Vado” in primo luogo è una commedia. E poi è un film sulla... riconciliazione necessaria».
Riconciliazione tra chi?
«Fra tutti: l’Italia di oggi è il Paese più diviso del mondo, lo hai notato? Eravamo divisi tra destra e sinistra, adesso lo siamo fra destra, sinistra e grillini. Ma siamo divisi anche tra nord e sud, fra ricchi e poveri, sempre di più. E soprattutto fra giovani e vecchi, in maniera drammatica: ti basta?».
Parliamo di stile: eravate cattivisti e sulfurei, politicamente scorretti. In “Quo Vado” lo zalonismo è diventato più buonista?
«Assolutamente no: sono due momenti dello stesso racconto».
Cioè?
«La cattiveria per noi è uno strumento che serve a disvelare. Mentre invece il senso della satira, nel nostro film, è riconciliare, trovare un punto di unione fra le diverse tribù italiane. Io e Luca siamo convinti che in questo paese diviso la nostra commedia sia un modo per trovare una sintesi».
Gennaro Nunziante è l’uomo che ha scoperto Luca Medici, alias Checco Zalone. Classe 1963, cresce in un quartiere popolare di Bari, in una famiglia operaia, e vive sulla sua pelle – da bambino – il trauma della perdita del leggendario “posto fisso” (del padre). Da ragazzo costituisce una culla del cabaret a partire da un locale, “La dolce vita”, aperto quasi per gioco con un gruppo di amici. Poi inizia a lavorare a Telebari, creando fiction satiriche di incredibile successo. Di lì il grande salto con TeleNorba, dove per la prima volta arrivano mezzi per lavorare (e dove Gennaro incontra la donna della sua vita). Un giorno, durante un provino in cui un giovane artista si propone come parodiatore di cantanti neomelodici, il grande incontro. Tra Nunziante e Zalone è una folgorazione, inizia il sodalizio professionale che dura fino ad oggi.
Nunziante, a proposito di cattiverie: Aldo Grasso ha scritto che se Zalone avesse un altro regista potrebbe diventare il nuovo Totò.
«L’avesse scritto Arbasino avrei smesso di lavorare. Ma l’ha detto Grasso, così posso continuare tranquillo».
Hanno scritto che sei il padre della comicità renziana.
«Anche questo mi è toccato sentire! Sono pazzi».
Uno che vi conosce, Nicola Lagioia, dice che sei «un radicale di sinistra cattolico».
«Questa definizione è tecnicamente vera. Il mio è un dna “cattocomunista”. Quartiere Libertà di Bari: famiglia operaia, molto cattolica, molto umile, molto onesta. Avevo sei anni quando mio padre Antonio, che lavorava all’Italsud, viene licenziato per la chiusura di un’azienda di autolinee».
Un dramma?
«Ci ha messo due anni prima di trovare un nuovo impiego, alle ferrovie».
Due anni sono lunghi.
«Abbiamo vissuto grazie al sussidio dei cosiddetti pacchi di solidarietà della Regione con generi di prima necessità: zucchero, farina... Ma non mi sono mai sentito povero, perché nel mio mondo, in questo straordinario sud dove sono cresciuto, nessuno mi ha fatto sentire così».
In che senso?
«Ho scoperto cosa fosse la vera solidarietà, di una comunità che ti si stringe intorno: di chi si toglieva il pane di bocca per darlo a te. Ho conosciuto la solidarietà di amici e compagni di mio padre, quel mondo di valori di quella che io chiamo la Vera Sinistra. Oggi non esiste più».
Ne sei certo?
«Ho imparato molto presto a riconoscere e distinguere la vera sinistra da chi fa finta: i radical chic che sinceramente detesto».
Fammi un esempio.
«Antonio: un amico – disoccupato come mio padre! – ma che al contrario di noi aveva il cosiddetto “pezzo di terra”, un orto con cui sopravvivere. Un pomeriggio venne a casa nostra con il suo pacco e disse: “Ne avete più bisogno di me!”. Ce lo regalò».
Per due anni povero, senza sentirsi povero.
«Con l’eccezione di alcuni momenti, non mi sentivo disperato, ma pieno di dignità e orgoglio».
Cosa intendi per “alcuni momenti”?
«La cosa più brutta che ricordo di quel tempo era la processione a scuola in cui ti regalavano scarpe e maglioncini. Immagina la scena: sfilavi davanti a tutti i compagni con questi doni, che ovviamente non potevi rifiutare, in mano. Ogni passo un’umiliazione».
Terribile. (Ride):
«No, non ti preoccupare. Dice Ivano Fossati, in una bellissima canzone: “Ad ogni più acuto dolore/ segue una più acuta fantasia”. Ne sono convinto, la mia vita è stata questo».
Padre operaio, sindacalista, nasci nel cuore della sinistra più classica.
«La mia strada faceva angolo con via Principe Amedeo, dove c’era la sezione del Pci. Sono cresciuto lì: la più classica e generosa militanza, si andava a diffondere il giornale, si discuteva. Quel mondo è finito, scomparso dalla mattina alla sera, con la sciagura della scissione, quando sono nati Pds e Rifondazione».
Da ragazzo hai avuto anche simpatie extraparlamentari...
«Avevo un gruppo di amici carissimi nell’area più ribelle degli anni Settanta. Del primo voto quasi mi vergogno, te lo voglio raccontare: l’ho dato a Toni Negri».
Il leader di Autonomia Operaia?
«Proprio lui: era in carcere per il processo 7 aprile, alle politiche del 1983 venne candidato dai Radicali. Marco Panella diede vita alla più riuscita delle sue campagne, “vota per liberare il prigioniero”».
E ti convinse.
«Anche con il mio voto, Negri uscì dal carcere da deputato, e fuggì in Francia. Fu una delusione drammatica».
L’ultimo voto?
«Al Pd di Bersani, che considero una persona seria. Lo apprezzavo molto, un altro che a suo modo voleva unire, e non dividere. Ti devo dire che consideravo folle anche chi, per combattere Berlusconi, sputtanava l’Italia all’estero».
Checco Zalone ha fatto una battuta sulla bassezza di Brunetta e lui ha detto che è razzismo.
«Se noi abbiamo potuto sopportare un ministro come Brunetta, lui potrà sopportare anche un po’ di razzismo».
Il primo passo nella tua vita professionale quasi per gioco: un giornale satirico.
«Nella Bari in cui i socialisti governavano tutto, iniziamo a prenderli in giro: parodiando l’Avanti ci inventiamo “il Davanti”».
Un Samiszadt.
«Il primo numero duecento fotocopie diffuse a mano. L’ultimo: dodicimila copie vendute in edicola. La forza della satira».
Come nasce “La Dolce Vita”?
«Per scelta del padre di un ragazzo, Lele Sampietro, che sente dal figlio questa frase: “Ho tre amici cretini che si divertono come matti e fanno ridere tutti”».
E lui che fa?
«Tirò fuori 200 milioni di lire e ci aprì il locale».
Diventa tappa obbligata per tutti i talenti che passano al sud.
«Il primo esempio? Daniele Luttazzi: non lo conosceva quasi nessuno, aveva vinto un piccolo premio, la Zanzara d’oro: lo mettemmo in cartellone».
Il secondo?
«Gene Gnocchi: me lo segnalò un altro grande amico di allora, Roberto Freak Antoni, il cantante degli Skiantos, il gruppo che ha fatto nella musica quello che a me piacerebbe poter dire di aver fatto nel cinema».
Cioè?
«Un terremoto. Prima c’erano solo i cantautori, ridotti a maniera, poi arrivano loro e demoliscono tutto».
Cosa ti dice di Gnocchi Roberto?
«“Guarda, c’è questo avvocato: un tipo molto serio, ma quando sale sul palco fa delle cose splendide”».
E voi lo chiamate?
«Con un dialogo di ingaggio esilarante: Noi chiediamo: “Quanto costi?”. E lui: “Quattrocentomila lire”. E noi: “A sera?”. E lui: “No, tutto il week end”. E noi: “Ma scusa, ti devi pure pagare il vaiggio, così non ci rientri”. La prima trattativa al contrario della mia, vita: dare a Gene più di quel che chiedeva!».
Per “La Dolce Vita” passa il meglio di una generazione.
«Non solo artisticamente. Era un gruppo di belle persone».
Cosa ricordi di quel primo provino in cui selezioni Luca Medici?
«Si era preparato due canzoni da finto-neomelodico: una era “la globalizzazione”, l’altra “La ginnastica”. Bastava sentirle per intuire l’enorme lavoro di preparazione che c’era dietro».
C’erano già le radici di Checco?
«Assolutamente sì. Il tempo darà ragione al fenomeno Zalone. Lui prende le lancette della comicità contemporanea e le sposta nel futuro».
A Telebari le prime telenovelas.
«Si fermava la città, davvero».
E a Telenorba il grande salto, con Teledurazzo.
«L’idea era semplice: spiegavamo l’Italia agli italiani di Puglia, fingendo di essere una tv che spiegava l’Italia agli albanesi».
La fortuna della tua vita.
«Non per il successo di Teledurazzo. Perché incontro la mia futura moglie, Margherita».
Con l’imitazione di Vendola, che parla aulicamente e poi dice: “Ehi bimbo! Ma tu da me che caszo vuoi?” Checco arriva alla fama nazionale.
«Sì, ma quanto studio c’era dietro quella gag? Allora come oggi la nostra comicità era disvelamento. Raccontare per spiegare. Un comico se non svela qualcosa non serve a nulla».
Allora parliamo adesso di “Quo Vado” e dei “posti fissi”.
«”Sole a catinelle”, e non l’ha scritto quasi nessuno dei critici, era, sotto l’apparenza giocosa, un film sulla crisi. “Quo Vado” è un film sulla peggiore follia di questi tempi».
Cioè?
«Il Paese che ti ho descritto prima non è preparato alla guerra civile sugli stipendi. Non puoi far passare il mercato del lavoro da ipergarantito a iperselvaggio, dalla mattina alla sera».
Adesso ti diranno che sei conservatore.
«Ma è solo buonsenso: l’Italia che conosco io così non ce la fa. Servono tutele, garanzie, non puoi lasciare la gente nel nulla e dirle: “Arrangiati!”».
È accaduto?
«Secondo me sì: “Quo Vado” racconta questo passaggio schizofrenico da un mondo all’altro. Noi vorremo dire, anche attraverso la maschera beffarda di Checco, che non puoi colpire i più deboli».
Il vostro cinema è anche il più grande atto di satira e insieme di amore per il sud.
«Perché lo amiamo. Lo vediamo in tutti i suoi difetti. Ma sappiamo cosa può offrire all’Italia».
Ad esempio?
«Un’idea del senso della vita. Ti pare poco?».
Un po’ conservatori lo siete: tra i due personaggi-chiave il politicone prima repubblica Banfi è cento volte più simpatico del ministro Bruschetta.
«È il nostro modo per dire che se non fai la rivoluzione il passato torna come bene-rifugio. Infatti Banfi viene rieletto trionfalmente sindaco».
Il posto fisso è l’ultimo baluardo della sinistra?
«Veramente negli anni Settanta l’ideologia del posto fisso è l’arma che ha fermato l’avanzata del comunismo».
Dici?
«Certo! Il concorsone era un sacramento dell’Italia democristiana, mica di quella rivoluzionaria. Chi non capisce questo non capisce nulla. Non solo di “Quo Vado”, ma dell’Italia».