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 2016  gennaio 11 Lunedì calendario

Jody Brugola alla conquista dell’America. Parla il nipote dell’uomo che inventò la vite perfetta

Ci sono circa 800 km tra New York e Detroit, e un lago di mezzo. Di qua il distillato stesso dell’America, di là il simbolo di un’industria pesante che fu, che ha preso sberle (il default dell’amministrazione locale è del 2013) e si è rimessa in piedi. Jody Brugola, quello della Brugola (sì, anche quella di Aldo, Giovanni e Giacomo), ha conquistato la sua America partendo da New York e arrivando a Detroit. Sognando di fare l’attore e arrivando ad aprire (luglio 2015) uno stabilimento in Michigan per invadere, da lì, il mercato americano. Nipote e figlio d’arte (il nonno Egidio, fondatore nel ’26 della OEB-Officine Egidio Brugola di Lissone, Brianza, fu un geniale designer, il padre Giannantonio uno dei più grandi industriali del dopoguerra italiano), Jody incarna la famosa terza generazione, che spesso nelle aziende è sinonimo di fase delicata. Al momento, i numeri sono dalla sua: non solo perché porta uno dei pochissimi cognomi ad essere diventato anche il nome di un prodotto venduto in tutto il mondo (come la penna Bic, per dire). La OEB fattura 125 milioni (bilanci 2014, tutto export), dà lavoro a oltre 300 persone, sforna un miliardo e mezzo di viti all’anno, cresce del 4-5% dai tempi delle vacche magre post-Lehman. La specialità di casa sono le viti: sette pezzi cosiddetti critici, quelli più stressati che fissano i motori delle auto e devono resistere a tutto. Le viti Brugola, dal brevetto ai materiali, dall’esperienza maturata alle modalità di produzione e consegna, sono oggi considerate dal mercato tra le migliori al mondo. E attorno al gambo a torciglione brevettato da Egidio si avvitano le storie del lavoro e del marchio, del figlio e del nipote, degli operai e del grande salto dell’Atlantico, della qualità italiana e del genio brianzolo.
«Mio padre – dice Jody a Libero che lo incontra alla fine del periodo festivo, – perse il suo a 16 anni: al nonno fu fatale l’assenza di bombole d’ossigeno all’Isola d’Elba. Il suo terzo infarto se lo portò via. Per papà, e per suo fratello che aveva 12 anni, fu un periodo terribile: mia madre prese in mano l’azienda per cinque anni, poi nel ’64 mio padre la rilevò. A 21 anni si trovò padrone di un nome glorioso ma con un’impostazione ormai inadeguata».
Perché inadeguata?
«Egidio era un artista: amava disegnare viti straordinarie, era un genio. Mio padre ebbe l’intuizione e la forza di capire che per sopravvivere era necessaria una produzione industriale più attenta al commerciale. Già allora anche altri facevano le viti Brugola: bisognava diventare i più bravi e venderle in tutto il mondo. Oggi il discorso della valigetta con cui prendere l’aereo e piazzare il prodotto può sembrare retorico, ma è vero visto che in Italia tiene botta solo chi esporta. Mio padre l’ha capito e l’ha fatto 50 anni fa».
Era sempre stato il suo sogno?
«No, lui voleva disegnare automobili. La morte del nonno cambiò tutto. Dopo il liceo frequentò Scienze politiche, ma lasciò tutto per guidare la OEB. Andò dalla Fiat, dall’Alfa Romeo, dalla Volkswagen a proporre viti perfette, che aiutassero la produzione con montaggio automatico. Capì per primo lo sviluppo dell’automotile e cambiò per sempre il corso dell’azienda. Solo nel tempo ho capito il peso che ha dovuto reggere, in mezzo a gente più grande di lui. E sempre nel tempo ho misurato la sua grandezza assoluta nella storia dell’industria italiana e non solo».
Lui voleva disegnare automobili. E lei?
«Nessuno nasce col desiderio di fare l’industriale in tenera età. Io volevo fare l’attore, e in questo c’era qualcosa di mio padre, grande uomo di comunicazione. Per anni ho coltivato questo sogno studiando e recitando a New York; ho fatto le mie particine in qualche film, poi la vita ha preso un altro corso. Ho iniziato ad avvertire il peso della presenza di mio padre soprattutto quando, per motivi di salute, ho capito che non sarebbe durato per sempre. Poi il salto vero c’è stato nel 2011: venivamo da due anni tremendi, perché il crac Lehman per noi ha portato un 2009 davvero duro».
Temeva suo padre?
«Ho avuto per molto tempo il timore di essere schiacciato dal suo strapotere, dalla sua forza. Poi lui ha visto, affidandomi responsabilità, che poteva appoggiarsi su di me, e io ho percepito che potevo essere all’altezza. È stato un percorso fluido, pur con difficoltà. Ho capito che mio padre si fidava quando mi ha seguito sull’idea di aprire in America: un rischio, certo, ma una missione che ho dato alla OEB perché tutti i nostri concorrenti erano già negli Usa, in Cina o in entrambe. Toccava a noi, e dopo una fase di timore papà ha sposato il mio progetto».
Che difetti aveva suo padre?
«Era troppo generoso, troppo buono soprattutto con chi non lo meritava e con chi si è approfittato di lui. E, sul piano più imprenditoriale, forse non ha saputo strutturare a sufficienza l’azienda per affrontare il periodo brutto del 2009. Anche lì, si era sacrificato troppo per tappare i buchi degli altri...».
Si può separare il padre dal “padrone”, nel senso di capo dell’azienda?
«Molto difficile: la persona è una sola. Però mi ha confortato vedere che, così come io da figlio ho compreso le sue qualità geniali, così chi l’ha conosciuto sul lavoro ha sempre messo in luce le sue doti umane, la sua generosità. Certo, tra le tante cose che ho avuto forse ho anche avuto meno libertà».
Già, lei avrebbe fatto l’attore. Un sogno perduto.
«No. Faccio due ore di recitazione a settimana. Mi piace e mi serve in azienda. Voglio imparare a parlare, a muovermi, a essere persuasivo, a coinvolgere sui progetti e non a imporre. Un imprenditore dev’essere un buon attore, mio padre lo era. Faccio molta pratica coi monologhi».
Il suo preferito?
«Mi sono applicato al finale di Marlon Brando in Apocalypse Now».
A proposito di sfide: l’America. Cos’ha voluto dire per lei aprire a Detroit pochi mesi dopo la scomparsa di suo padre, e che bilancio può fare dei mesi americani del 2015?
«C’è voluto un grande cambio di mentalità: lo stesso che ci aveva portato ad aprire il capitale al fondo . Mantenere i valori e gli ideali di una grande azienda familiare e adottare metodi di gestione strutturati. L’America è fin qui un grande successo: in tempi rapidissimi abbiamo aperto e stiamo producendo molto bene. Ci permetterà di battere nel 2015 il nuovo record di fatturato, con un incremento di quasi il 4%: supereremo i 130 milioni. L’anno prossimo stamperemo là 2mila tonnellate di prodotto, su un totale di 45 mila annue».
Dopo quanto avrete ammortizzato i costi del nuovo stabilimento?
«Dal 2016. I risparmi sugli spostamenti della merce sono molto ingenti».
Il 2015 ha visto il dollaro apprezzarsi fortemente sull’euro. Per voi è un bene?
«Al momento ci favorisce per il fatturato, ma è sfavorevole se pensiamo che gli investimenti sono stati fatti quando era a 1,35 e ora è salito tantissimo (al momento è attorno a 1,08 sull’euro, ndr)]».
A Lissone, però, non se n’è andato nessuno: l’occupazione in Italia resterà o Brugola ha un futuro delocalizzato come tanti altri?
«L’ho detto e ripetuto: la produzione resta qui. Abbiamo, oltre a Volkswagen e Ford, Mercedes, BMW, Nissan: marchi che hanno accorpato gli acquisti e di cui siamo fornitori».
La scorsa settimana è stata segnata dal debutto di Ferrari in Borsa a opera di un altro italiano d’America, Sergio Marchionne. È un suo modello? Vede Piazza Affari nel futuro della OEB?
«Sicuramente Marchionne è una persona molto intraprendente, capacissima finanziariamente e managerialmente, ma il suo settore non è il nostro. Ha avuto grande visione e intelligenza: sostengo da anni che il mercato Usa è molto più solido e prezioso di quello cinese. Ho grande rispetto per le scelte di FCA e Ferrari: per ora non vedo opzioni simili per OEB, ma mai dire mai».
Le spiace non produrre per FCA e Ferrari?
«Ferrari usa viti molto distanti dai nostri standard. OEB produce per il motore più potente al mondo, il 16 cilindri della Bugatti, per la Lamborghini, per la Aston Martin. Per FIAT abbiamo lavorato fino a 6 anni fa, poi abbiamo preso strade diverse. Non ho rimpianti».
E lo scandalo Volkswagen vi ha coinvolti? Avete perso quote?
«Dal mio punto di vista c’è un grosso scarto tra l’eco mediatica e geopolitica e la realtà. Certo, quel che magari calerà per Volkswagen lo recupereremo da altre case, ma lo scandalo è rientrato. Inoltre per noi quel mercato era comunque saturo e dovevamo cercare altre strade a prescindere dal pasticcio delle emissioni».
Che 2016 sarà per OEB? E per l’Italia?
«Per OEB spero in una conferma del trend di crescita solida, senza strappi, del 2015: +4-5%. Per l’Italia vedo al massimo uno 0,7, 0,8%. Niente rispetto a ciò di cui ci sarebbe bisogno e rispetto a ciò che si è perso in questi anni. Ma è un discorso che coinvolge tutta Europa e non solo: siamo davvero in un mondo pieno di incertezze. Dico solo che sarebbe ora di smettere di parlare di ripresa: c’è solo un rimbalzo tecnico fisiologico, è finita la parte di recessione e nulla più. Al di là di qualche abbassamento di tasse, poi compensate da aumenti di tariffe o altro, serve un vero grande piano industriale. Tante, troppe aziende sono vendute a gruppi stranieri: più che di escamotage per tirare a campare c’è da capire cosa può fare l’Italia dal punto di vista industriale per creare lavoro».
Nella guerra tra gufi e ottimisti non la vedo sulla seconda sponda: bisogna cambiare le leggi, la moneta, le tasse?
«Noi per primi abbiamo colto l’occasione degli sgravi sulle assunzioni, ma è una goccia. Meglio proposte choc: il 50% di taglio delle tasse sul lavoro per i primi 3 anni di un assunto, per esempio. Qui viviamo il periodo forse peggiore degli ultimi 100 anni. Finora non c’è stata nessuna svolta. Quanto alla moneta, non c’è dubbio che potendo svalutare, avendo un tessuto basato sulle PMI, avremmo un vantaggio immediato. Mi chiedo solo per quanto tempo. Certo, oggi l’unico oro rimasto all’Italia è quello delle PMI, sono le uniche che possono creare occupazione e bisogna pensare soprattutto a loro».
Renzi l’ha delusa?
«Renzi ha la possibilità di fare cose che nessun altro ha mai fatto. Ha molta più carta bianca perché parte da sinistra e ha il capo di Stato che è della sua parte, e questo cambia. E poi può fare le cose perché se non le fa vince Grillo: e questo credo sia il motivo principale per cui ha preso il 40%. Lo considero una persona dinamica e coraggiosa, discuto molte delle cose che ha fatto, mi guardo intorno e non vedo alternative, perché a destra non c’è più niente e dall’altra ci sono quelli del reddito di cittadinanza...».
Grillo la spaventa.
«Sono convinto che arriverà al governo, andando avanti così. C’è un livello di tassazione imbarazzante, una cosa da capolinea dell’economia».
Ma lei chi vota?
«No no, io sono a-politico, ragiono da imprenditore».
Cioè, non vota?
«Voto, sì. Ma non dico cosa».