il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2016
Tullio De Mauro parla dell’impoverimento culturale della politica e della tv ma anche degli intellettuali radical chic che andavano a vedere Zalone prima che Renzi gli aprisse le porte
Ai più bastano nome e cognome: Tullio De Mauro. Se servisse è un linguista. Dal 2007 è professore emerito della facoltà di scienze umanistiche dell’università Sapienza di Roma, che ha contribuito a fondare. Ha pubblicato saggi e libri sulla sintassi comparativa indoeuropea, sulla semantica storica e la lessicologia, sulla linguistica statistica, sulla semiotica e la teoria del linguaggio. È stato ministro della pubblica istruzione dal 2001 al 2002, nel governo tecnico presieduti da Giuliano Amato. Il suo libro più recente è Storia linguistica dell’Italia repubblicana.
In questo contesto lo interpelliamo perché, seppur autonomo, De Mauro ha sempre fatto parte di quegli intellettuali di riferimento del Pci che, a vario titolo, e in diversi periodi storici, hanno portato i nomi di Vittorio De Sica, Alberto Asor Rosa, Lucio Colletti, Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini, Elio Vittorini e molti altri.
Tutti punti di riferimento che la sinistra, con lo scemare del tempo ha perso. Non è un caso che oggi Renzi citi più spesso Fonzie, quello del telefilm Happy Days, che non don Lorenzo Milani e che ai film relegati nei cinema d’essai preferisca comunque Zalone che lui rivendica di aver sempre amato, mentre i radical chic lo scoprono solo adesso.
Professor De Mauro, partiamo dai gufi, categoria della quale avrà fatto parte anche lei, probabilmente.
Penso di sì, di essere stato anche io un gufo in molte occasioni. Con l’appellativo di gufo Renzi definisce tutti coloro che non la pensano come lui o che, comunque, non la pensano allo stesso modo sulla ragione che lui ha scelto.
Le piace il termine gufo?
No, non mi piace affatto. È offensivo. Però, se devo dire la verità, non mi fa nessun effetto. Io, come milioni di persone, ho sempre cercato di capire. Se capire vuol dire esser gufo, pazienza. Non smetto adesso, cim mancherebbe altro. Mi consolo solo con un particolare.
Quale?
Che quella dei gufi è un’evoluzione in positivo del linguaggio berlusconiano che sapeva essere molto più offensivo, soprattutto con alcune categorie, i magistrati e quelli che lui definiva comunisti. Ma ripeto: ci sorrido, non mi fa nessun effetto, come non me lo faceva allora Berlusconi.
Secondo lei perché i politici italiani e “televisti” non hanno più riferimenti culturali?
Non so, forse li avranno, li conosco poco,. Sicuramente evitano di esternarli. O semplicemente sono stati smarriti. Mettiamola così: fino a qualche lustro fa gli uomini politici avevano orizzonti decisamente più ampi.
Esisteva anche una selezione che la politica ha perso.
Sì, che alla fine era una garanzia.
Una garanzia culturale?
Non mi riferisco solo a quella. Intanto esisteva una palestra nelle amministrazioni locali, nessuno si faceva ministro senza essersi sporcato le mani sul territorio. Ma le scuole di partito, la fidelizzazione al Partito socialista piuttosto che alla Democrazia cristiana, era anche una garanzia per l’elettorato. I cambi di casacca di massa sono un fenomeno recente. Chi usciva da un partito lo faceva con forti motivazioni ideologiche, non per convenienza personale.
C’è anche un impoverimento dettato dai tempi.
Senza dubbio, tra gli anni Settanta e Ottanta l’opinione pubblica si è adagiata su quello che era più conveniente. Più facile ascoltare, e capire: quindi vince Fonzie su Calvino.
La ragione si può ricercare?
In Italia sicuramente l’impoverimento che la televisione commerciale ha portato nelle case, la ricerca di un prodotto che non contemplasse al primo posto la qualità, ma l’introito pubblicitario.
Renzi nei suoi ragionamenti è molto pop. O trash. Dipende dai punti di vista, e dalla sottile linea che separa i due termini. Secondo lei le ragioni sono meramente elettorali e di consenso?
Questo mi sembra fuori discussione. È un tipo di scorciatoia. Ma ripeto, non conosco i singoli, li ascolto poco. Non so giudicare se non da qualche dibattito per televisione. Una cosa però non mi è sfuggita, e riguarda Checco Zalone.
Anche lei un tifoso di “Quo vadis”?
No, non l’ho visto. Vidi il suo primo film. Però dico a Renzi che io ho conosciuto Zalone al festival della letteratura a Bari, invitato da Pepe Laterza. Il giudizio sugli intellettuali radical chic che si sono dovuti ricredere su Zalone dato dal presidente del consiglio è affrettato e sbagliato. Io conoscevo Zalone senza che Renzi mi aprisse le porte, lo avevo visto. Anzi, ora vado a vedere il film.