la Repubblica, 11 gennaio 2016
Ricordo di Rod Laver, il tennista con l’istinto da killer che sapeva restare calmo come la mamma
Sulla copertina di un mio vecchio libro c’è Rod Laver, insieme a qualcuno che, con il braccio, sta imitando la traiettoria di una palla. Mi dava retta. Aveva stima di uno che aveva addirittura giocato con i Mousquetaires, e ammirato Budge, l’unico prima di lui a vincere un Grand Slam. Di quel (mio) libro, amava il fatto che l’avessi scritto per insegnare il gioco a mia figlia, che era stata, a nove anni, l’editor di una delle 12 edizioni de Il Tennis Facile. E poi, invece di fare la tennista, aveva scelto di diventare commediografo, uno dei più noti della Francia contemporanea. «Perché non lo traduci in inglese? Lo mostrerei a mio figlio», aveva detto Rod, non rendendosi conto della difficoltà nel farsi tradurre di chi scriva in un misterioso dialetto neo-latino. Ma uno capace di vincere non uno, ma due Slam, impresa sin qui realizzata soltanto da lui, di altro non può occuparsi se non della propria attività. Non la chiamo lavoro poiché non sono mai riuscito a considerare il tennis un lavoro, sebbene temo che lo sia diventato, con tutti gli obblighi complementari che hanno costretto i campioni a emulare divi e uomini pubblici.
Mentre scrivo di Laver, ho sotto gli occhi un magnifico libro di uno dei miei più cari amici, Bud Collins, un tipo che non vale meno di Damon Runyon o Paul Gallico. L’ho preso dai miei scaffali molto tempo dopo che aiutai Bud nello scegliere il titolo “The Education of a Tennis Player“, titolo che mi ricordava l’Education Sentimentale di Flaubert, che stavo leggendo e che gli avevo suggerito nel 1971. Perché the Education? Ma perché, se nei successi recentemente annotati di Frank Sedgman (La Repubblica, 5 gennaio 2016) c’era stato quel grande Maestro di Hopman, Harry aveva spostato la sua scuola in America, e Laver aveva incontrato, bambino, un altro Chirone, Charles Hollis. Questo insegnante non è passato alla storia del tennis come Hopman, ma a sentire Laver lo avrebbe più che meritato.
Era nato, Rod, da una famiglia di proprietari di bovini, a Langdale, un villaggio non lontano da Brisbane. Era tanto vasta, la sua famiglia, da formare con i parenti una squadra di cricket dilettantistico, dove il piccolo si inizia allo sport. I Laver si spostarono poi a Rockhampton, dove il papà aprì una macelleria, e i tre fratelli e una sorellina si misero subito a costruire un campo in terra, simile a quello che avevano avuto, nella fattoria. Lo dotarono addirittura di luci serali, e, sotto quelle luci, si vide apparire Hollis, il Maestro. «Rod non ha il sangue caldo come te e gli altri figli» disse a Papà Laver. «Ha la calma della mamma. Se riesco a mettergli adosso il killer istinct diverrà qualcuno. «Insieme al cosiddetto killer istinct, la capacità di vincere, Hollis insegnò al piccolo Rod un rovescio liftato che nessuno dei campioni mancini aveva mai posseduto, e lo convinse che dieci prime palle di battuta valgono più che tre aces e un doppio errore.
Passiamo, anche per ragioni di spazio, al 1956, quando un giovanissimo Rod di 18 anni affrontò il suo primo viaggio fuori dall’Australia. Scoprì che «l’erba di Wimbledon è la migliore del mondo» e che quella di Forest Hills (New York, dove si giocavano i Campionati d’America) «nemmeno adatto a una mucca, per il rischio che la poverina ci si rompa una zampa». E scoprì anche che «sulla terra il tennis è un altro sport, ogni punto è come la guerra, e ne venite sporchi come foste caduti in una buca». Assistette, Rod, al match di Forest Hills nel quale Lew Hoad perse la possibilità di fare Grand Slam, battuto nella finale del Quarto Torneo dal suo fraterno amico e partner di doppio Ken Rosewall. E tornò a casa sognando di superare i suoi celebri compagni di squadra.
Saltiamo qui gli anni dedicati alle prime esperienze, e ritroviamoci al primo dei due Grand Slam, lasciando la parola a Rod, in un’intervista qui pubblicata il 17 Gennaio del 2011. «All’inizio degli Anni Sessanta mancavano al tennis dilettantistico, il nostro, Kramer, Gonzales, Segura, e i Twins, i Gemelli Stregoni, Rosewall e Hoad : tutti prof. Il rischio più grande che incontrai nel 1962 fu al quarto turno del Roland Garros, contro il tuo finto compatriota Martino Mulligano, australiano quanto me. In un match in cui non sbagliava mai, Mulligan arriva a match point a 5-4 al quarto, 30-40. Contraddico il mio Maestro Hollis, cerco l’ace, e lo sbaglio. Vado a rete sulla seconda? Vado, pregando gli Dei. E riesco a spostare fuori Mulligan, e gli chiudo l’angolo, per far punto in volée di rovescio. Sono salvo».
«Ma ti rimaneva sulla strada un altro australiano», gli dissi, alludendo a quel Neal Fraser con cui mi dilettai di giocare spesso, terminata la sua carriera. «A 5-4 al quinto, sempre per lui, al Roland Garros, Fraser fu vittima di una crisi di prudenza; ne approfittai, così come contro Emerson, anche lui troppo cauto, quando condusse due set a uno, e 3-0. Forse ebbe ragione Hollis. Mi aiutò la testarda calma di mia madre». «Ma ci fu poi un match a New York, la quarta fermata, anche quello in salita». «Fu con Manolo Santana, l’inventore del lob liftato. Manolo andò avanti 16-14 – allora non c’era tie-break – e 5-1 nel secondo, dove ebbe set point a 5-4. Fortuna? Chissà». «Poi vennero 5 anni di professionismo, 20 Slam visti da lontano, nei quali avresti molto probabilmente battuto il record di Federer, che appare, a chi non conosce il tennis, il primo di ogni tempo, con 17 Slam.
Ma veniamo al tuo secondo Slam. Fu più difficile del primo?». «Non credo. Gonzales, Kramer, Hoad e Rosewall, che mi batterono spesso tra i Pro, erano invecchiati. Il match più pericoloso fu probabilmente nel torneo d’avvio, che si giocava a Brisbane, e non a Melbourne, come adesso. Su un campo insaponato per la pioggia chiesi di calzare le spikes, le scarpe con i chiodi, dopo aver perso un secondo set infinito, 20 a 22,ma riuscii a raggiungere il quinto, e lo vinsi, nonostante quell’anno Tony Roche mi abbia battuto 4 volte. Sai, tra mancini è dura». «Ma poi ci fu l’indiano sconosciuto, a Wimbledon». «Non del tutto sconosciuto, Premjt Lall, che condusse due set a zero, e, se ricordi, sbagliò sulla palla break del 3 pari uno smash infantile. Disse poi che l’aveva causato l’improvvisa sensazione di potermi battere, che l’aveva sconvolto. Sensazione che non sfiorò Stan Smith, giunto vicinissimo a eliminarmi nel quinto set». «Mi ricordi lo US Open» dissi. «La quarta stazione dev’essere la più emozionante. Da Crawford a Hoad l’hanno mancata». «Allo US Open il quinto set contro Gorman fu meno emotivo delle telefonate di mia moglie Mary, americana di Newport, che stava partorendo e mi voleva con lei, mentre a New York diluviava, e la finale veniva di continuo rinviata». «Questo – conclusi – Charles Hollis non era riuscito a prevederlo», e ridemmo. Nessuno, anche quel visionario, era riuscito a immaginare che l’imbattibile Rod Laver fosse quasi annientato da un attacco cardiaco, nel 1998,non nel corso non di un match, ma di una trasmissione televisiva, che si svolgeva, per fortuna,a 400 metri da un ospedale, a Los Angeles.
Si attende, dal 1969,qualcuno capace di un Grande Slam. Non immagino due.
All’ultimo atto, lo Us Open, lo chiamava la moglie che stava partorendo. I rivali di fronte a lui soffrivano di crisi di prudenza