la Repubblica, 11 gennaio 2016
Messi e il suo quinto Pallone d’Oro nelle parole di Bartomeu, il presidente del Barça: «Leo è il più grande della storia. Con Ronaldinho siamo diventati globali. Ma con lui siamo universali»
Presidente Bartomeu, il Barcellona festeggia il quinto Pallone d’oro di Messi.
«Leo merita tutto. È il più grande della storia, lo dicono i numeri. E non si fermerà a questo».
Un anno fa sfiorò l’addio?
«No, mai. Nel 2013 Tata Martino fu catapultato all’ultimo, per la malattia di Tito Vilanova. Nell’estate 2014, ds Zubizarreta, facemmo 24 operazioni di mercato, un record. All’inizio del ciclo di Luis Enrique non eravamo il classico Barça spettacolare. Il punto di reazione fu la sconfitta con la Real Sociedad. E il primo a reagire fu Leo».
E se Guardiola lo vuole al City?
«Messi sta bene qui. È il suo posto da quando aveva 13 anni, legherà al Barça tutta la carriera. Rispetto al 2008 è sempre il migliore, ma si è reinventato il ruolo nel gruppo. Non fa solo formidabili gol: tutto il Barcellona passa attraverso la sua intelligenza. È generoso con tutti. Negli occhi della squadra leggi la felicità di divertirsi e di divertire la gente. Leo è felice qui».
Leggenda tra le leggende: Cruyff, Maradona, Romario, Ronaldo, Ronaldinho.
«Molto di quello che siamo lo dobbiamo a lui. Abbiamo avuto tanti campioni, a partire da Kubala e Luisito Suarez. Cruyff, da giocatore, ci ha sottratto all’oblio e da allenatore ci ha fatto entrare nella mappa d’Europa, con la Coppa Campioni 1992. Con Ronaldinho siamo diventati globali. Ma con Messi siamo universali».
La sfida è restare a questo livello.
«Da 10 anni continuiamo a vincere, eppure sono cambiati gli uomini, tranne Messi e Iniesta. Siamo esigenti con noi stessi e crediamo nella Masia, il centro di formazione, con allenatori che coltivano la filosofia del gioco collettivo».
Allenatori “canterani”: ora lo fa anche il Real, con Zidane.
«Guardiola, Vilanova, Luis Enrique si sono formati qui: coraggiosi, lanciano i giovani. Siamo un club globale, rispettato e amato, con la missione di divertire il mondo. Spesso all’estero mi dicono: non tifo Barça, ma ne sono rapito».
Vincere conta più dello spettacolo.
«Non vogliamo vincere in qualsiasi modo. È la scuola olandese di Michels, Cruyff, Van Gaal, Rijkaard. Al centro di ogni decisione c’è il pallone. Se lo tratti bene, ti restituirà tutto».
Il calcio è arte, nella Catalogna di Gaudì e Dalì?
«Lo può salvaguardare l’Eca, l’associazione dei grandi club europei. Si gioca troppo. Senza riposo, la vita sportiva si accorcia. Il pallone va trattato bene».
Messaggio pedagogico.
«Con la fondazione di Cruyff apriremo i campi delle scuole anche nei week-end. Vogliamo essere il club dei bambini. Abbiamo progetti di solidarietà con i nostri educatori per 420 mila bambini nel mondo: con l’Unicef, col Papa e, unici, col Cio. Ogni giocatore destina volontariamente l’1% dello stipendio alla nostra Fondazione. Bill Gates mi ha detto che, se uniamo la forza dei suoi progetti alla potenza sui social del Barça, seguito da 200 milioni di persone, possiamo fare tantissimo. Insieme abbiamo combattuto la polio, ora la povertà infantile».
Il calcio moderno non sembra filantropico.
«I campioni sono uno straordinario veicolo pubblicitario. E il calcio europeo è come la Nba americana, attira pubblicità e sponsor, mentre il basket europeo mi preoccupa, non genera introiti. Col calcio, quest’anno, il Barça arriverà a 670 milioni di euro di ricavi. Puntiamo al miliardo».
Invece la serie A è schiava dei diritti tv.
«Non sono un esperto di calcio italiano, ma la mia impressione è che da voi si sia smesso di investire. L’industria calcio funziona grazie a investimenti costanti. Il rivale di Barça e Real, club di soci, è la Premier League: ha proprietari che investono. Non si può dipendere dai diritti tv. E il costo del lavoro non dovrebbe oltrepassare il 65% dei ricavi».
Il Barça?
«150 milioni dai diritti tv e il resto dai biglietti, dai soci, dagli sponsor, dal marketing, dal museo. Reinvestiamo nella Masia 16 milioni all’anno. Il museo frutta 27 milioni l’anno, è il terzo più visitato della Spagna dopo Reina Sofia e Prado. Il 6% dei turisti viene a Barcellona per noi. Generiamo un indotto di oltre 15 mila lavoratori. Portiamo alla città l’1,2% del Pil».
Guardate il calcio italiano dall’alto.
«A me pare un calcio in salute: la Juve è appena stata nostra avversaria nella finale di Champions. Braida, l’ex dg del Milan, lavora per noi: da quando c’è lui, abbiamo vinto tutto».
Niente calciatori italiani?
«Abbiamo avuto Zambrotta e Albertini ha lasciato un buonissimo ricordo in pochissimo tempo. Gli innesti non dipendono dalla nazionalità. Un giocatore mi ha detto: non vengo a fare la riserva, non potrò mai togliere il posto a Messi, Neymar o Iniesta».
È determinante lo stadio di proprietà?
«Nei nostri attivi di bilancio sono essenziali quei 22 ettari nel centro della città. Abbattere la barriera del miliardo di introiti è un obiettivo abbordabile, in parte affidato a Francesco Calvo, il direttore commerciale strappato alla Juve, e al suo staff di quasi 100 persone. Abbiamo 36 sponsor, uffici e negozi a Hong Kong, stiamo per aprirli a New York, li apriremo a San Paolo e in Cina. E guardiamo a mercati strategici in Asia e America, con la nuova area globale di comunicazione di Albert Montagut».
La sponsorizzazione del Qatar?
«Sono in corso trattative. Qatar Airways nel 2011 ha puntato su di noi, le siamo grati. Il Barcellona ha ricambiato la fiducia, vincendo tutto il possibile. E oggi ha un valore commerciale più alto del 2011».
Il Qatar, col Mondiale, è costato caro a Platini.
«Rispetto molto Michel, gli auguro di uscire nel migliore modo dall’inchiesta. La sua idea del fair-play finanziario è stata utile al calcio».
Anche al Barça non sono mancati i guai.
«Il momento più duro è stata la morte di Vilanova. Era in piena attività, ci aveva dato il record della Liga vinta con 100 punti. Persona eccellente, trasmetteva alla perfezione la filosofia del Barça. Simboleggia la Masia, la crescita dei nostri giovani. Il campo di allenamento è intitolato a lui: i nostri allenatori devono essere dei Titos Vilanovas, ex giocatori con senso di appartenenza e moralità».
La sanzione Fifa per il tesseramento di 9 minorenni
stranieri?
«Il danno non è stato per la prima squadra, con due sessioni di mercato saltate. La Fifa ha danneggiato i ragazzi: non abbiamo avuto la squadra dei bambini di 8 anni».
Se Messi fosse arrivato negli ultimi due anni?
«Sarebbe dovuto tornare in Argentina. Lui venne a 13 anni con suo padre e la Fifa permette il tesseramento solo se ci sono entrambi i genitori, sradicando le famiglie. Leo con il Barcellona è cresciuto, ha vissuto qui, ha studiato qui, è diventato il fenomeno che è. Il Barça non fa nulla di illegale: cerca i migliori talenti al mondo e dà loro l’opportunità di giocare e di studiare».
Una specie di borsa di studio calcistica?
«Chi si opporrebbe al fatto che al figlio venga offerto di studiare a Oxford? Sono padre di due figli, parlo a ragion veduta. Perché negli altri sport è possibile? Gli abusi di minori nel calcio sono altri e si fronteggiano col controllo, non con divieti assurdi. Un gruppo di genitori sta portando la causa in sede europea: come Bosman, rivendicando il diritto di lavorare dove voleva».
Altra spina: il processo fiscale sull’ingaggio di Neymar, nato dalla denuncia di un socio.
«I nostri 160 mila soci hanno il diritto di denunciare, se qualcosa non li convince. Questo socio si è pentito e ha ritirato la denuncia, però il danno è stato grande».
Ma quel famoso contratto verrà rinnovato?
«Neymar rimarrà il più a lungo possibile. Qui si sente amato. È già sul podio del Pallone d’oro. Ciò che guadagna Neymar va adeguato al molto che dà».
Messi-Neymar-Suarez: un trio da 489 milioni.
«Anche di più, a guardare le clausole rescissorie. Nessuno ce li porterà via».
Ultimo caso: le multe Uefa per le bandiere separatiste.
«Ci siamo difesi e lo faremo ancora, davanti al Tas: non per difendere la bandiera in sé, ma la libertà di espressione. Siamo un club democratico e tollerante, ogni socio può esprimere la propria opinione, nella legalità. Allo stadio succede da 40 anni: perché non più?».
Questione attualissima: il separatismo catalano.
«Il Barça è un club catalano e catalinista, col 94% dei soci catalani. Però abbiamo superato da tempo la frontiera: siamo un club globale, accettiamo tutte le tendenze politiche e tutte le idee. A prescindere dalla partita politica sul governo della Catalogna: non permetterò che qualcuno utilizzi il Barcellona, per nessuno scopo».
Il presidente del Barcellona può coltivare ancora un sogno?
«Espai Barça: un progetto sociale, per rimodellare un’area unica al mondo e renderla fruibile dai nostri soci: 600 milioni di investimento, 9% di Pil in più per la città. Il Camp Nou è del 1957, lo porteremo nel futuro. E rifaremo il palazzetto. Quando l’Espai sarà pronto, nel 2021, il mio mandato sarà scaduto: è la mia eredità».