la Repubblica, 11 gennaio 2016
Dalla A di America alla S di sicurezza: ecco le parole che hanno segnato i sette anni di presidenza Obama, le stesse che userà domani per il suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione
Sotto la cenere di una presidenza che inesorabilmente si spegne, Barack Hussein Obama cercherà domani sera, di fronte alle Camere riunite e alla nazione, le parole per riattizzare le braci di una storia d’amore e di odio che aveva acceso di speranze, e bruciato di paure, l’America e il mondo. Sarà questo il suo settimo e ultimo Sotu, come l’inevitabile acronimo sintetizza il discorso sullo “State Of The Union”, sullo stato dell’Unione, da quello trasmesso a reti unificate il 27 gennaio del 2010, dopo un rapporto soltanto scritto inviato al Congresso nel 2009. E come il debutto, così l’addio di questi grandi attori sul palcoscenico della storia segnano sempre con le loro parole l’eredità incisa nella memoria del tempo.
Appunto come tutti i suoi predecessori, da quando nel 1934 l’esplosione della radio trasformò la semplice relazione scritta al Parlamento imposta dalla Costituzione in un indirizzo solenne, pubblico e alluvionale quando lo pronunciò l’inarrestabile Bill Clinton per 84 minuti nel 1999, Obama, che nel suono scintillante delle proprie parole trovò la musica affascinante che lo portò per due volte alla Casa Bianca, cercherà il filo di quel racconto di sé e del lavoro fatto che sembrava spesso aver smarrito. Il primo presidente figlio di uno straniero mai americanizzato, il primo nato non sul continente, ma su lontane isole del Pacifico, il primo con una metà africana del proprio Dna e senza neppure un nome anglo nel certificato di nascita, sa di galleggiare a fatica sul filo del sostegno popolare. Annaspa attorno al 45 per cento e questo passo d’addio potrebbe affondarlo negli abissi del 22 per cento dove George Bush precipitò nell’ultimo dei suoi otto anni di mandato o lanciarlo verso il 73 per cento che salutò nel 1999 l’uscita trionfale di Bill Clinton dallo Studio Ovale del suo processo di impeachment.
In principio, come alla fine, è sempre il Verbo che rimane per i Presidenti, dalla «Nuova generazione» di Kennedy all’«È di nuovo mattino in America» di Reagan, dal «Non sono un farabutto» di Nixon all’ironia di Clinton che definì l’essere presidente come «essere il custode di un cimitero, dove hai un mucchio di persone sotto di te, ma nessuno che ti dia ascolto». Obama sta cercando, secondo il suo ufficio stampa, le parole che disse e quelle che vorrà lasciare per testimoniare i risultati ottenuti, possibilmente chiudendo con qualche cosa di più efficace del brusco, militaresco: «Evviva e addio» di Dwight Eisenhower. Una fatica tanto più necessaria perché il paradosso della sua presidenza è l’essere stata costruita sopra una magnifica capacità oratoria e incrinata dalla incapacità di comunicare i risultati. Da giorni e fino all’ultimo minuto, come Clinton che fece ribaltare e riscrivere il proprio addio la mattina del giorno in cui lo pronunciò, gli speech writer stanno mettendo a punto le parole chiave. Il “Lessico di Obama”, che ha utilizzato in questi suoi sette anni ai comandi e che riaffioreranno nel suo saluto all’America.
LE “TRE R”
Sono i tre verbi dai quali cominciò il suo viaggio, “Rescue, Rebuild and Restore”, salvare, ricostruire e risanare, il primo, più urgente compito di un capo dello Stato e del governo che aveva ereditato, all’alba del 2009, la catastrofe multipla della finanza, il collasso dell’economia, la disoccupazione al 10 per cento e le due guerre aperte in Asia e in Mesopotamia.
AMERICA
Invariabilmente, America è la locuzione più ripetuta in tutti i discorsi presidenziali e Obama non ha fatto e non farà eccezione, soprattutto lui, che ancora quasi due americani su dieci sospettano di essere non americano, segretamente musulmano e anticristiano. America è una giaculatoria che comprende, e insieme smentisce, ogni sospetto, se reiterata più volte.
JOB. IL LAVORO
Anche coloro che lo odiano, e sono, secondo la Gallup, l’86 per cento dei repubblicani, devono ammettere controvoglia che il dimezzamento della disoccupazione è stato, senza essere un trionfo, un risultato che ogni capo di governo, in Europa soprattutto, gli copierebbe con golosità.
SICUREZZA
La parola che ha rimpiazzato di prepotenza la “pace” che otto anni or sono era il leitmotif della campagna. «Il primo dovere di un Presidente è garantire la sicurezza dei propri cittadini», ha dovuto dire e ripeterà Obama, a una nazione che si sente riprecipitata in guerra, ma in una guerra dentro casa.
ISTRUZIONE
Tra i successi meno pubblicizzati, ma di maggior portata dell’amministrazione Obama, c’è l’alleggerimento del mostruoso peso dei debiti contratti da studenti per pagarsi le sanguinose rette universitaria. Ora il governo, non più le banche o i privati, garantiscono quei debiti e li riducono.
SANITÀ
Mentre ancora continuano le vane battaglie legali e parlamentari della maggioranza repubblicana, bloccate dalla Corte Suprema come dai veto presi- denziali, il successo della riforma della assicurazione sanitaria sarà uno dei punti centrali del “Lessico Obamiano”. La percentuale di americani senza assicurazione è scesa dal 18 per cento, quando fu varata la legge, all’11 per cento di oggi. Diciassette milioni di americani in più rispetto ad allora, secondo Forbes non certamente un tifoso della Obamacare, oggi sono assicurati e le compagnie non possono rifiutare copertura a chi è affetto da malattie.
BETTER. MEGLIO
Non ottimo, non benissimo, ma “meglio” è il mantra.
FUTURO
Era già l’inno dei Clinton, ripreso da un famoso pezzo dei Fleetwood Mac, “Non smettete di pensare al futuro” usato per la campagna elettorale del 1992, e di futuro, pensando alla propria successione destinata a Hillary, se i democratici vinceranno, Obama dovrà ripetutamente parlare. Gli addii dei presidenti devono sempre bilanciare il vanto dei passato con la promessa di un futuro che non gli appartiene più. Ma che interessa a chi la ascolta, più dei bilanci.
TERRORE
L’ultimo discorso alla nazione di Obama dopo le stragi di San Bernardino e di Parigi è stata una delusione. Sembrava che nel vocabolario del Presidente questa parola fosse entrata tardivamente, di contraggenio ed è uno dei vuoti che la sua amministrazione sembra avere lasciato.
VIOLENZA
Le armi sono l’ultima, forse donchisciottesca, battaglia di Obama contro i mulini di un Congresso, di un campo avverso repubblicano, di una Corte Suprema e di un’opinione pubblica che lo faranno piangere ancora, ma non gli daranno mai il potere costituzionale e legale, con questa maggioranza, di incidere davvero sul libero commercio e possesso di armi.
RAZZISMO
La parola è impronunciabile, se riferita agli Usa, pena l’accusa di “calare la carta razziale”, ma la strage di afroamericani da parte di agenti che sembrano troppo ansiosi di scaricare le armi su sospetti dalla pelle scura, e troppo protetti da tribunali e procuratori della repubblica, è il sottotesto sempre presente quando Obama parla.
CAMBIAMENTO
Change, la chiave di volta dell’arco di tutte le promesse obamiane, l’assicurazione dello “Yes we can”, sì, possiamo farlo, possiamo cambiare. Come gli osservatori più equilibrati ammettono, sì, l’America di Obama è cambiata, non quanto aveva promesso, non quanto ogni candidato promette di fare e mai riesce davvero a fare, ma non è più l’America ereditata da George W. Bush, nel gennaio del 2009.
E basterà guardare al podio dell’aula della Camera, dove la classe politica, gli ospiti d’onore, i mandarini dell’Esecutivo, del Legislativo, del Giudiziario si riuniranno (tutti meno un ministro nella lista di successione al Presidente in caso di catastrofe, che verrà tenuto lontano, protetto dal servizio segreto) per vedere, nella figura esile e ingrigita di quest’uomo quanto l’America sia cambiata. In attesa, forse, di un donna da quel pulpito.