La Stampa, 11 gennaio 2016
Giovanni De Carolis, il pugile di cui ci possiamo innamorare
«I pugili buoni in Italia ce li abbiamo, anche migliori degli altri. Ma se la gente non li conosce come fa a innamorarsene?». Dice bene Giovanni De Carolis, il campione del mondo che l’Italia si è accorta di avere in casa due giorni fa quando ad Offenburg, in Germania, si è preso la corona dei Supermedi Wba battendo per ko tecnico all’11a ripresa Vincent Feigenbutz. Un titolo vero, il primo mondiale conquistato da un italiano dopo quello dei massimi leggeri di Fragomeni nel 2008. Giacobbe alla chance mondiale arrivò a 39 anni, De Carolis – romano, una moglie, Veronica, e due figli Erin («sì, come la Brockovich del film, per il carattere») e Noah – a 31 dopo una carriera nata per caso. Papà Massimo, architetto, e mamma Adele, insegnante, remavano contro. Giovanni a 15 anni aveva davanti una carriera da difensore centrale nell’Almas Roma o da architetto pure lui (ha frequentato Grafica e Progettazione multimediale alla Sapienza) ma gli è bastato mettere un giorno il naso in palestra, prima alla Garbatella poi a Mazzano Romano, per capire che il suo posto era lì.
«Riporto il titolo a casa»
«Ero entrato per irrobustirmi, sul ring c’erano un uomo grosso e un ragazzo agile, veloce. Il mito dell’uomo forte mi si sgretolò davanti. Capii che volevo diventare come quel ragazzo». La trafila delle categorie giovanili, il debutto fra i pro a 23 anni, l’altalena fra medi e supermedi, il titolo internazionale Ibf nel 2014 poi la chance mondiale contro Feigenbutz, colta nella rivincita dopo una sconfitta ai punti di un soffio. «Il clic è stato il passaggio al professionismo: i risultati c’erano, non potevo più aver paura di arrivare dove sognavo». Addio tavoli sparecchiati, addio studi, addio pallone. «Con il calcio guadagnavo 800 euro, più 6-700 come cameriere nel ristorante del padrone della squadra. Ma la boxe mi ha fatto capire che volevo altro. Il merito è anche di mia moglie, insieme da 6 anni gestiamo una palestra a Monterosi dove lavoriamo anche con i bambini di 5 anni e tutte le famiglie sono contentissime di come crescono: perché la boxe non è prendersi a botte, come crede la gente». Modelli a cui ispirarsi, tutti e nessuno: «Sono un appassionato, prendo qualcosa qui e là. Ho letto i libri su Ali e mi appassiona la storia di Klitschko soprattutto per la forza mentale. Ma la vera ispirazione è la mia famiglia». Sogni residui, uno. Grande, difficile: «Vorrei difendere il titolo in Italia, a Roma. Per dare lustro al nostro sport con un evento che non sia il solito calcio». Durissima.
«Gli altri Paesi investono»
Il mondiale di Offenburg è andato in onda su DJ tv, in differita. Il pugilato in Italia sembra un vecchio gioiello dimenticato in penombra. Perché? «Vent’anni fa la boxe da noi era ancora popolare e in Germania no – spiega –. Oggi è il contrario. Perché lì, come in Gran Bretagna, Russia, Ucraina, hanno investito. Imprenditori e tv si sono messi d’accordo, i palazzetti sono pieni, alla gente lo spettacolo piace. I soldi arrivano. Il match contro Feigenbutz ha fatto 3 milioni di audience, quello contro Abrahams 13. In Germania non c’è il dilettantismo, passano subito professionisti e il livello è più basso, ma da noi Bundu o Di Rocco alla chance mondiale arrivano a 35 anni, mentre Feigenbutz ne ha 20. Il fatto è che gli altri Paesi investono per creare il campione, noi aspettiamo l’impresa per muoverci. Bisognerebbe scegliere un gruppo di giovani e puntare su di loro, farli diventare popolari. Serve un programma, certo. Ma se ci sono riusciti gli altri perché non possiamo farlo noi?». Gong.