La Stampa, 10 gennaio 2016
In Libia ci sono troppi nemici del governo unitario
Fa impressione la velocità con cui precipita sempre di più verso il baratro la situazione in Libia. Mentre l’Isis ha scelto di giocare d’anticipo guidando l’offensiva terroristica per impedire la stabilizzazione (e pacificazione) del Paese, anche un gesto umanitario come quello del presidente incaricato di formare il governo, Faiez al Sarraj, che ha voluto visitare i feriti e portare solidarietà alle famiglie delle vittime della scuola di polizia di Zlitan, diventa occasione per una protesta di una milizia che ha deciso di aprire il fuoco al check-point tra Misurata e la stessa Zlitan.
Trattative sul filo
L’agenzia di stampa egiziana ha parlato di attacco terroristico, Sarraj al telefono con il nostro ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha ridimensionato l’episodio. Certo è che qualcosa di grave è successo se il corteo presidenziale è stato accolto con sventagliate di mitra in aria e se a fatica è riuscito poi a raggiungere l’aeroporto di Misurata.
Le tempistiche, l’Isis, gli oppositori interni, un’opinione pubblica locale assente, che non reagisce neppure di fronte all’attacco terroristico più grave che la Libia abbia mai conosciuto – 74 allievi guardacoste uccisi da un’autobomba – rischiano di far precipitare la situazione. Ed è evidente che la comunità internazionale con l’Italia in testa non può permettersi di avere una nuova Somalia a 400 chilometri dall’Europa.
Sarraj e il Consiglio presidenziale sono asserragliati a Tunisi, in attesa che si determinino le condizioni per riaprire il palazzo del governo, a Tripoli. E in queste ore stanno provando a formare il nuovo governo che, teoricamente, dovrebbe essere ufficializzato tra una settimana. Ma forti sono i dubbi sui tempi.
Fa paura l’iniziativa politico-terroristica dell’Isis che in pochi giorni ha messo a ferro e fuoco la Cirenaica, attaccando i terminal petroliferi, facendo esplodere bombe nella centrale elettrica di Bengasi, inaugurando la stagione delle autobombe con l’attacco alla scuola delle reclute delle forze di polizia a Zlitan, allungando le proprie incursioni a Tripoli e Sabratha, facendo registrare propri presidi a Derna, Bengasi e nella stessa Sabratha e occupando Sirte.
Nemici interni
Serraj deve fare i conti anche con i nemici interni, che vogliono far fallire il governo di pacificazione. A partire dal presidente del Congresso nazionale generale (Gnc) di Tripoli, Nuri Abu Sahmin, e dal presidente del Parlamento di Tobruk, Saleh Aguela, che non hanno sottoscritto l’accordo proposto dal mediatore dell’Onu, Martin Kobler.
Remano contro anche l’influente ex parlamentare di Misurata, a capo di una milizia, Salah Badi, e l’ex viceministro della Difesa Kaled Sherif. E naturalmente il Gran Muftì Sadek al Ghariani, il parlamentare del Gnc Mohamed al Kaid, fratello del terrorista Abu Anas Al Lybi.
E poi c’è Bengasi. Nella Shura è membro autorevole uno dei leader della Brigata 17 febbraio, Raffallah Al Shati, oppositore dell’accordo. E nella Shura sono presenti i gruppi alqaedisti e gli uomini di Ansar al Sharia.
La situazione è complessa anche in Cirenaica dove nelle ore dell’attacco ai pozzi petroliferi le milizie dell’autonomista Jadran hanno sostenuto il peso principale della resistenza ai miliziani dell’Isis. E lungo la frontiera del Sud che deve fare i conti con confini altamente pericolosi con Ciad, Niger e ancora più a Sud con la Nigeria di Boko Haram.
L’Isis, ormai in difficoltà in Siria e Iraq, gioca al rilancio aprendo il terzo fronte in Libia. E la velocità dell’offensiva non trova ancora una reazione adeguata. Né dal punto di vista militare né da quello politico. A Tunisi le trattative vanno avanti con i tempi libici.