La Stampa, 10 gennaio 2016
Coraggiosa cronista va a passeggiare in mezzo ai musulmani di un quartiere torinese
Diciamo così, qui non ci siamo più abituate. «Fiorellino! Ma dove vai? Vieni, hey, ti ho detto vieni qua, dai vieni qua che ti facciamo la festa». Fischio, rifischio, insiste: «Psssss, dove vai tutta sola?». Sono le cinque di pomeriggio a Porta Palazzo, lato corso Regina.
Il mercato all’aperto più grande d’Europa è finito da tre ore, i camion stanno pulendo la piazza. Se ti avventuri in quel quadrilatero di strade che una ragazza torinese sola sa che è meglio non frequentare, ciò che porti a casa, oltre a una montagna di complimenti più o meno insistenti, più o meno smaccati e invasivi, è un misto di vergogna, fastidio, sì anche paura che non basti dire di no. Non ci vengo con te a fare la festa, non voglio fare un giro o bere qualcosa, non voglio conoscerti e se smetti di seguirmi è anche meglio.
Il confine
Quell’angolo tra Porta Palazzo e piazza della Repubblica è il confine di tante cose, tra il centro e la periferia immigrata, tra la legalità e l’illegalità. E non capisci cosa ci facciano tanti uomini assiepati tutto il giorno in strada. Se ci passi in mezzo ti guardano come un corpo estraneo. Occhiate. Tentano di schedarti. Si avvicinano. «Sei uno splendore, complimenti, se vuoi ti accompagno. Dai vieni con me, dove vai?». Uno di loro si fa più insistente. Scende dalla fermata del bus che sta aspettando e ci segue. «Non andare via, ooh, torna indietro. Ti pago dai. Quanto vuoi, 70 euro?». «Non voglio niente, sto aspettando delle mie amiche». È un ragazzo sulla quarantina di origini marocchine, l’unica cosa che gli chiediamo è «cosa ci fai qui?», non si fa problemi a dirci che spaccia. Poi ritorna alla carica: «Dai, andiamo da me, sono a due fermate di pullman».
A lui si aggiungono in cinque. Altri commentano, poco più in là. Branchi di maschi. Divisi per gruppi di etnie, i cinesi che non ti danno confidenza, gli africani e qualche italiano che fanno affari, perché come dice Mounir, 21 anni in libertà vigilata dopo un mese di carcere perché ha guidato delle auto rubate, «qui a Porta Palazzo compri di tutto, armi, droga, donne, basta pagare e sapere a chi chiedere», e poi ci sono i marocchini che fanno gruppo per i fatti loro.
È pomeriggio inoltrato. Basta una passeggiata per sentirsi gli occhi addosso e la sensazione di non essere padrona dei propri vestiti. Yassin da Marrakech ci approccia con un «ciaaaao principessa, vuoi un po’ di compagnia?». Anche lui non molla l’osso. Ci propone di andare a bere, prima una birra, pur ammettendo di essere musulmano: «Io sono un bravo ragazzo, giuro su mia madre». Poi un caffè. Ci chiede il numero, vuole presentarci gli amici. Al secco no, si volta offeso. Ogni metro è un commento. Il fastidio si fa più chiaro quando ti guardi attorno e noti che i vari gruppi sorridono, ti passano allo scanner. Tu, di riflesso, stringi la borsa, ma non è la paura sottile di essere derubati. È che non vuoi sentirti lì al centro, non vuoi essere razzista e pensi che camminare per strada senza essere molestate sia un diritto fondamentale di ogni donna, in qualunque parte del mondo.
Anche in San Salvario – il quartiere più multietnico di Torino – di venerdì sera. Con la movida che è tutto attorno. A venti metri, a distanza di un isolato, ci sono i locali più «fighetti» e radical chic. Pieno centro, Porta Nuova è a due passi, ma quegli incroci tra via Berthollet e via Galliari con via Saluzzo sembrano terra di non si sa bene chi. La differenza la noti se la varia umanità che si raduna a bordo strada la guardi negli occhi. Allora, la frase la buttano lì. Come un ragazzo nigeriano di 36 anni, che ci segue per qualche metro, con il cappuccio in testa e le mani in tasca. Dice di fare il buttafuori da Sephora, di avere fidanzata e due figli, «ma in Africa, è meglio che restino là». Propone di andare in uno degli hotel lì intorno. «No, grazie, sto aspettando delle amiche».
La domanda
«Non è vero». Sarò vestita in modo troppo provocante? Mi interrogo. Indosso un cappotto rosso, tacco 8, un filo di rossetto. La domanda è sbagliata. La mia. Perché alla sua siamo sempre convinti che basti rispondere no. Con disagio, sì, e con la certezza che approcci del genere, anche se non capita niente e la sensazione è «solo» un filo di paura, sono comunque una forma di aggressione, con le parole. Non importano i complimenti, quando ti senti nella tana del lupo.