la Repubblica, 10 gennaio 2016
Parla Bartabas, l’uomo-cavallo
AUBERVILLIERS
La differenza tra gli uomini e i cavalli? La domanda non coglie di sorpresa Bartabas, fondatore nell’86 del Cirque Zingaro, da trent’anni in convivenza quotidiana e acrobatico connubio artistico con il mondo equino. Qui, a Aubervilliers, cittadina-satellite ai margini di Parigi, quasi trent’anni fa creò dentro la cinta dell’antico forte militare il suo villaggio-scuderia, oggi un miscuglio di caravan eteroclite, roulotte e capanne, il tutto imbottito da una cinquantina di membri della troupe talora raggiunti da fantomatici famigliari («non voglio sapere…», ammicca divertito Bartabas, al secolo Clement Marty). E qui sono nati i suoi tredici spettacoli di teatro equestre: «La differenza tra noi e loro – risponde dunque il regista-scenografo-domatore francese, ricevendoci nel suo ampio caravan dalle poltroncine in cuoio rosso – è che noi abbiamo scelto di essere qui e loro probabilmente no».
È disteso e sorride, parentesi d’eccezione nella routine di focose impennate. Come quella che nel 2007 gli valse l’arresto, dopo essersi scagliato su fotocopiatrici e addetti alla Drac (Direction Régionale des Affaires Culturelles) all’annuncio della riduzione dei contributi per l’Académie du spectacle équestre da lui fondata cinque anni prima a Versailles. «È vero, i cavalli sono nostri partner non per loro scelta ma sono anche – e lo sono perennemente – al centro di ogni nostra attenzione. La stessa cadenza degli spettacoli, sono loro a imporcela: cinque rappresentazioni a settimana, mai due lo stesso giorno. L’integrità del cavallo viene prima di tutto.
Anche perché quello che noi facciamo è teatro, non sport. Non si deve mai spingere un animale a exploit esagerati: al contrario, va indotto, al massimo, al cinquanta per cento delle sue possibilità se si vuole che finisca l’intera stagione. Gli artisti umani, semmai, sono loro a dover essere spinti a superare se stessi. I cavalli mai. Vede, per noi è prima di tutto un modo di vivere, una filosofia del lavoro che richiede un estremo rigore.
La gente s’immagina chissà che: ah in quelle roulotte, ah la bohème, ah la libertà… Ma io direi che il nostro è piuttosto un sacerdozio».
Conventuale anche il dipanarsi delle ore e delle “funzioni” d’ogni giornata, con implacabile risveglio quotidiano alle sei, del quale anche il cronista s’è fatto, ahinoi, testimone. Ore sette: i palafrenieri cominciano a pulire i cavalli con acqua e spazzola. Ore nove: ecco i tacchini, glu-glu vagante dei pennuti- feticcio negli spettacoli di Zingaro, mentre la mandria di sedici puledri argentini fa la ronda, sotto la guida di cinque addestratori («un primo allenamento, per verificare se sono in forma e potranno partecipare tutti allo spettacolo di stasera»). Ore dieci: visiera avvitata sulla fronte, espressione tesa dei giorni di burrasca, Bartabas, dritto come un palo, aspetta fuori dalle stalle che l’assistente finisca di preparare Posada, cavallo tra i più giovani, per la ripetizione degli esercizi. Ore dodici rappel à l’ordre del grande capo, riunione nel salone, timing da rivedere, luci da sistemare e poi quel corvo capriccioso da mettere in riga. Ore diciassette: ancora pulizie nei box, Le Caravage, da diciannove anni stallone-simbolo di Zingaro (cui Alain Cavalier ha dedicato uno dei suoi film più meticolosi), si lascia docilmente pettinare la criniera per la rappresentazione mentre altri cavalli sono invece in libertà: «Devono rilassarsi prima dello spettacolo, soprattutto i più giovani». Ore diciannove: riscaldamento muscoli, trucco, sul tappeto i cavalieri-acrobati si stirano, si piegano, si smollano mentre gli angeli, con ali e parrucca, sono pronti al volo. Ore venti e trenta buio in sala, la pista è un cratere, al centro un clown. Musica. In uno squarcio di tuono irrompono i puledri argentini. Dal cielo, scendono gli angeli cavalcatori. Gran parade dei clown macellai. Sulla voce cavernosa, dolce e senza tempo di Tom Waits, Bartabas, per la prima volta dal 2003, torna in scena di persona e proprio in groppa a Le Caravage. Due ore dopo, la magia di On achève bien les anges ( Elégies) è finita.
«No, non è assolutamente gratuita l’allusione al titolo del film di Sydney Pollack, Non si uccidono così anche i cavalli?, mortifera maratona di danza americana. Del resto non stiamo forse assistendo, anche noi, qui in Europa, e senza neppure tante metafore, a una discesa agli inferi della società? Il mio spettacolo fa eco a Charlie Hebdo, fa eco al Bataclan. Abbiamo vissuto momenti durissimi. Che feriscono la mia cultura, la convinzione che si può ridere di tutto». Bartabas ha sempre flirtato con la morte. Sfidandola in cavalcate impazzite – sormontate da scheletri al vento – o esorcizzandola nelle performance crepuscolari dei suoi cavalli: «Qui rendo direttamente visita agli angeli, caduti e non, e mi rivolgo spudoratamente all’aldilà. Anche al mondo spietato d’oggi, ai fanatismi da tabula rasa delle religioni, dell’intolleranza. Vado avanti a testa alta: e i cavalli sono da sempre i miei angeli custodi». Ma non è rischioso fraternizzare con gli angeli in giorni dove anche solo sfiorare credi e religioni suscita reazioni cieche? «Sa, dopo il massacro d’un anno fa a Charlie ho ritrovato un disegno formidabile di Cabu, una caricatura che mi aveva fatto in diretta durante una trasmissione su Canal Plus. Mi si vedeva uscire di corsa da una macelleria con un cavallo sulle spalle! Ecco, io sono cresciuto con addosso tutto questo humour controcorrente, provocatorio, e dunque sono sempre stato “a rischio”».
Curioso percorso, il suo. Nato nel ‘57 da padre architetto e madre medico, trascorre un’infanzia e un’adolescenza agiate. Ma non appena ha in tasca la sua bella pagella dell’ultimo anno di scuola ecco che Clement si butta in strada a fare spettacoli in cambio di spiccioli: «Le mie prime rivelazioni sono state subito teatrali. Due italiani: Dario Fo e Luca Ronconi. Fo l’avevo visto, ragazzino, al Théâtre de l’Odéon, solo in scena e con il pubblico tutt’attorno, appiccicato ai suoi piedi, alla sua voce e al suo gesticolare, nel Mistero buffo. Ronconi m’aveva folgorato con l’Orlando furioso, alle Halles Calberson, vicino Parigi: palcoscenici mobili, cavalcati dagli interpreti che si facevano breccia nel pubblico precipitandosi poi su di noi. E infine c’è stato, con L’âge d’or, un altro choc: Ariane Mnouchkine» che, nel 1789 teatrale, aveva ripreso il sistema di carrelli scenici di Ronconi. «È stato quel rimescolio di schemi, quella nuova giovinezza della scena, che mi ha dato la spinta a osare un altro teatro, improbabile ma necessario, in luoghi non deputati o riabilitati: un teatro di nuovo vivo». Il Teatro equestre: «No, prima è venuta la strada. Ho cominciato a diciassette anni, proprio con un adattamento di Mistero buffo: un’esperienza all’origine del futuro Teatro equestre. Eravamo a metà degli anni Settanta e del lavoro di Fo mi inventai una versione scenicamente rude e esistenzialmente ginnica, soprattutto per la prontezza con cui dovevo darmela a gambe all’arrivo, puntuale, della polizia». Poi, trent’anni fa, il debutto ufficiale di Zingaro. «Da allora rispettiamo la cadenza di un nuovo spettacolo ogni tre anni. Alternanza lenta, anche questa imposta dai cavalli, ed è una cadenza al trotto che artisticamente mi sta bene. È più o meno lo stesso ritmo con cui uscivano i film di Fellini, che adoravo. Ogni due o tre anni si andava al cinema a vedere il nuovo Fellini, come per ritrovare un vecchio amico e avere sue notizie. Zingaro è uguale. La gente ci aspetta, ci è fedele. Ed è solo questo che giustifica l’impegno di tutta una vita: questa continuità, la sicurezza d’una relazione con un nostro pubblico, come con i cavalli e con gli uomini che con noi si alleano per periodi indeterminati. E pensare che tutto nasce da un niente, da una modestissima combinazione: un uomo e un cavallo…».