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 2016  gennaio 10 Domenica calendario

La Cassa Depositi e Prestiti non ha i soldi per fare quello che le si chiede. È tutta impegnata a nascondere il debito pubblico

Quando il Governo ha cambiato i vertici della Cassa DDPP molti se ne sono chiesti la vera ragione. Un chiarimento poteva arrivare dalla presentazione del piano industriale. Il piano però non è un documento con la proiezione dei dati di bilancio attesi, corredata dalle ipotesi sottostanti, ma un semplice comunicato stampa: così i dubbi rimangono.
Il piano contiene principi e linee guida per l’azione della Cassa, in buona parte condivisibili: vedremo però come verranno messe in atto. Invece, la cifra di 265 miliardi di risorse mobilitate, in assenza di un piano dettagliato, è poco credibile perché contrasta con la realtà di bilancio.
La Cassa dovrebbe intervenire nei casi di investimenti redditizi che i privati non fanno perché non riescono ad appropriarsi pienamente dei benefici (come la ricerca); o in quelli che apportano benefici molto lontani nel tempo (come le infrastrutture). Il rischio è lo sperpero; il discrimine è l’analisi costi-benefici, che però esula dai compiti della Cassa, mero finanziatore di decisioni pubbliche (Gestione Separata). In questo campo un contributo potrebbe venire da gestione e valorizzazioni degli immobili pubblici, un compito ora attribuito alla Cassa, a patto che si doti di competenze e indipendenza necessaria. Discorso analogo per le garanzie all’export, riorganizzate e accentrate in Cassa.
Nelle partnership per le infrastrutture il rischio da evitare è che i costi siano pubblici, mentre i benefici prevalentemente privati (per esempio, con Metroweb e la rete). Da evitare anche che i Fondi infrastrutturali utilizzino il sostegno della Cassa non per costruire nuove infrastrutture ma per incamerare cash flow e fare trading con quelle esistenti (vedi gli aeroporti comprati da F2i, poi rivenduti a un private equity straniero).
La Cassa dovrebbe inoltre assumere quei rischi che nei mercati finanziari sviluppati sono gestiti da operatori specializzati privati per gli investitori di lungo periodo. Ma praticamente inesistenti da noi a causa di un sistema storicamente banco-centrico. Mancano capitali per venture capital, private equity, ristrutturazioni aziendali, prestiti diretti, cartolarizzazioni, debiti in sofferenza, tranche di debito a più alto rischio.
Su questo punto le indicazioni del piano sono pienamente condivisibili, anche per promuovere lo sviluppo del nostro mercato finanziario e attrarre capitali esteri. Ma servono competenze e patrimonio. Giusta l’idea di usare fondi specializzati e co-investimenti per usufruire delle migliori professionalità esterne. Manca però il capitale: la Cassa è sotto- patrimonializzata per i rischi che dovrebbe assumere. Il bilancio della Capogruppo è in gran parte vincolato dai finanziamenti allo Stato: i 253 miliardi di raccolta postale (più 15 di crediti da entità sovranazionali) servono per girarne 270 alla Pubblica amministrazione sotto forma di prestiti a enti locali, depositi in Tesoreria e titoli di stato. La “privatizzazione” della Cassa, dunque, è stata principalmente un espediente per mascherare debito pubblico.
Tra le fonti di finanziamento, solo 11 miliardi sono le obbligazioni proprie sul mercato e 19 il patrimonio netto; il resto è raccolta a breve per gestire la liquidità. A fronte ci sono 20 miliardi di credito all’economia e 30 di partecipazioni strategiche. La leva quindi è già elevata (quasi 20 volte l’attivo/patrimonio, contro 12-14 delle principali banche), specie a fronte dei rischi che le partecipazioni comportano. La Cassa quindi non ha abbastanza patrimonio per finanziarsi emettendo obbligazioni proprie, come fanno le banche di sviluppo: verrebbe declassata a “spazzatura”. L’unica soluzione sensata sarebbe vendere le partecipazioni in Eni e Reti per liberare risorse per il piano. Ma, oltre a costituire in Italia una bestemmia politica, con il petrolio a 33 dollari, non è il momento di vendere un portafoglio concentrato nell’energia.
Le partecipazioni sono poi essenziali al conto economico. In semestrale, il margine di interesse, al netto delle commissioni, è negativo. Questo perché la Cassa sussidia il Tesoro (incassa meno del costo medio dei titoli di Stato), ma anche le Poste, a cui paga, oltre a un tasso di mercato sulla raccolta, circa 1,6 miliardi di commissioni per l’esclusiva. Il margine torna positivo solo grazie a 1,2 miliardi di dividendi, la metà da Eni e Reti. Temo quindi che il piano si risolva in un effetto ottico moltiplicativo, simile d’altronde al piano Junker, per il quale 21 miliardi dovrebbero mobilitarne 350.