Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  gennaio 09 Sabato calendario

Lunga intervista a Quentin Tarantino sul cinema, le armi e il razzismo

Siamo nel mese di dicembre del 2015, in una suite di un albergo nel West End di Londra e la tensione nella stanza si taglia a fette con il coltello. Quentin Tarantino è in città con un piccolo esercito di collaboratori della Weinstein Company, la casa cinematografica indipendente fondata da Bob e Harvey Weinstein, i fratelli che hanno seguito passo passo la carriera del 52enne cineasta fin dai giorni difficili del film Le iene.
Tre collaboratori della Weinstein sono in attesa di sapere come se la caverà con le nomination l’ultimo, scabroso western di Tarantino, The Hateful Eight. Il film riceve tre nomination: migliore attrice non protagonista (Jennifer Jason Leigh), migliore colonna musicale originale (Ennio Morricone) e migliore sceneggiatura. Tutt’intorno espressioni sollevate e soddisfatte.
Quando, qualche minuto dopo, incontro il regista in una suite in fondo al corridoio, lo trovo contento per come sono andate le cose. “Speravo che la mia sceneggiatura se la cavasse”, dice. E colgo un sorriso. In realtà le sceneggiature di Tarantino “non se la cavano mai”. Troppo riduttivo: la cifra del suo cinema e della sua personalità fa pensare più ai tuoni, alle variazioni musicali o a un pugno nello stomaco. Sta seduto sul divano proteso in avanti e le parole gli escono a scatti.
Spiega che The Hateful Eight ha diviso i votanti dei Globe Awards, la qual cosa è tutt’altro che sorprendente. Dopo Bastardi senza gloria e Django Unchained, due film rivelatisi tra i più popolari fino ad oggi, Tarantino è tornato con un’opera più amara, pessimista e crudamente realista anche se di una bellezza conturbante (è stata girata in Ultra Panavision 70, un formato estinto che consente riprese straordinarie che abbracciano tutto lo schermo).
Il film è in debito con The Iceman Cometh di Eugene O’Neill e con il claustrofobico horror La cosa di John Carpenter. Per i nuovi fan di Tarantino è una autentica prova di resistenza nervosa, ma per i fedelissimi del cineasta è il nirvana.
Tanto per cominciare, dura quasi tre ore o, nella versione Roadshow, 3 ore e sette minuti. E poi, come suggerisce il titolo, non c’è nessuno per cui fare il tifo. Al contrario il film è un pasto completo di cattiveria, una gara a chi è la più malvagia tra le otto persone rimaste intrappolate a causa di una tempesta in un saloon in montagna.
La Guerra di Secessione è finita da appena un anno e gli otto ne offrono una visione con connotazioni razziali e nazionalisti. Uno degli otto, il maggiore Marquis Warren – interpretato da Samuel L. Jackson – ha combattuto per l’Unione e porta sempre con sé nella tasca della giubba una lettera di Abramo Lincoln, mentre altri due, lo sceriffo della Carolina del Sud interpretato da Walton Goggins e il generale interpretato da Bruce Dern, hanno combattuto per l’esercito confederato e non hanno ancora digerito la sconfitta.
Le tensioni razziali non sono una novità nel cinema o nella vita di Tarantino. Il regista è cresciuto nella zona di South Bay a Los Angeles negli Anni 60 e 70 e si è poi trasferito nel Tennessee con la madre Connie quando aveva tre anni e sua madre 20. Arrivarono all’indomani dei disordini di Watts del 1965, sei giorni di violenze e di brutalità dei poliziotti bianchi contro i dimostranti neri. Il padre di Quentin, studente di Legge e aspirante attore, se ne era andato da casa prima della nascita del futuro regista.
Tarantino descrive i western della sua giovinezza – in mezzo alle migliaia di film visti da ragazzo e poi da dipendente di un negozio di noleggio di videocassette a Manhattan Beach – come “cinici” e “amari” e “a loro modo anti-americani”. Soldato Blu e Piccolo grande uomo trasferivano nel West gli orrori della guerra del Vietnam mentre I compari di Altman era un film ossessionato dal modo in cui funzionava la macchina di governo al pari di Perché un assassino di Pakula e di Tutti gli uomini del presidente.
I western, dice Tarantino, hanno uno status speciale: “Del decennio in cui furono girati dicono sull’America più di qualunque altro genere, con l’eccezione dei film ambientati ai giorni nostri”. Per questo Tarantino ha volutamente fatto in modo che The Hateful Eight rifletta le tensioni razziali degli ultimi tempi. Era deciso a dire la sua sul crescente malessere con “i cacciatori di taglie che rappresentano la legge” e il discorso sui “trabocchetti della giustizia del West” fatto dall’affabile boia interpretato da Tim Roth.
“Ma mentre eravamo impegnati nelle riprese, a seguito degli avvenimenti dell’ultimo anno e mezzo, il film è diventato più attuale di quanto avessimo pensato”, dice. “Non fosse altro che per i disordini seguiti all’assassinio del 18enne Michael Brown a opera di un poliziotto bianco a Ferguson, Missouri, nell’agosto del 2014”.
Ma il fatto di cronaca che più lo ha colpito è stata la strage di afroamericani nella chiesa di Charleston, Carolina del Sud. In quella circostanza persero la vita, mentre erano raccolti in preghiera, tre uomini, cinque donne e il pastore, uccisi a colpi d’arma da fuoco da uno “stronzo suprematista di 21 anni avvolto nella bandiera dei ribelli”, quella degli Stati confederati, commenta Tarantino.
Per la prima volta nella sua carriera, Tarantino confessa di aver modificato una battuta del copione. Il testo originario sembrava aver quasi anticipato la realtà. La battuta si trovava alla fine del pistolotto dello sceriffo interpretato da Walton Goggins, che ora termina così: “Quando i negri hanno paura, i bianchi sono al sicuro”. E più avanti nel film gli risponde il colonnello: “I neri sono al sicuro solo quando i bianchi sono disarmati”.
Nella prima versione, parlando dei neri che aveva ammazzato durante la Guerra di Secessione il personaggio di Goggins concludeva: “Chiedete ai bianchi della Carolina del Sud se si sentono al sicuro”. Tarantino ha preferito evitare il riferimento alla Carolina del Sud.
Ciò che ha fatto seguito all’eccidio nella chiesa di Charleston ha sorpreso Quentin Tarantino. “All’improvviso la gente ha cominciato a parlare della Confederazione come mai aveva fatto prima”, dice. “Io ho pensato che la bandiera degli Stati confederati fosse la svastica degli americani. E ora, all’improvviso, la gente ne parlava e diceva che bisognava vietarla e impedire che fosse riprodotta dappertutto: sulle targhe, sulle tazze da caffè ecc. Non bastasse, si comincia a parlare di cose come le statue di Bedford Forrest (generale dell’esercito confederato e adepto del Ku Klux Klan). Era ora”, aggiunge.
Per Tarantino l’America “non è mai stata così divisa dalla Guerra di Secessione”. Lo scorso ottobre ha partecipato a una manifestazione contro la brutalità della polizia a New York City e ha parlato a braccio “ovviamente onorando la memoria delle vittime”. Ma ammette che “i neri con cui parlo ti dicono che l’assassinio di afroamericani disarmati a opera dei poliziotti non è un fenomeno nuovo”.
Se oggi questa realtà è sulle prime pagine dei giornali, “dipende solo dal fatto che spesso ci sono le riprese filmate e la gente può vedere in televisione quello che prima veniva solo raccontato e spesso non creduto. Oggi questi filmati hanno scosso la coscienza del Paese e dei media. Per qualche strana ragione, la televisione sta svolgendo lo stesso ruolo che ebbe durante la Guerra del Vietnam”, dice Tarantino.
La partecipazione di Tarantino a quella manifestazione scatenò una furibonda reazione da parte dei capi del sindacato degli agenti di polizia che minacciarono una dimostrazione di protesta alla Prima del film di Tarantino. In realtà non è accaduto nulla, ma alla Prima a New York il tappeto rosso era presidiato dai sostenitori di Tarantino.
Quando accenno al litigio a Channel 4 News di tre anni fa in occasione del tour promozionale di Django Unchained e al suo alterco con il presentatore Krishna Guru-Murthy che aveva alluso ci potesse essere un rapporto tra la violenza nei suoi film e quella della vita reale, Tarantino sbuffa seccato.
La sua posizione al riguardo è precisa: “Mi rifiuto di stare sulla difensiva. Rispondo come rispondevo negli anni 90. Le mie opinioni non sono cambiate”. Ma poi continua: “Avrei potuto replicare a Guru-Murthy con ottimi argomenti, ma ho preferito non farlo. Avrei potuto dire che il cinema più violento delle società industriali negli ultimi 25 anni è quello giapponese. A volte talmente violento da sembrare grottesco. Eppure, come sapete tutti, la società giapponese è la meno violenta di tutte”.
E non di meno il tema del rapporto tra violenza e cultura continua a tenere banco, specialmente se si parla di cinema. Perché un lavoro teatrale venga bollato come si fa con un film, bisogna arrivare a forme di violenza estreme, da film dell’orrore. In un primo tempo, Tarantino del suo ultimo film voleva fare un dramma teatrale. Sarebbe stato affascinante vederlo sulla scena. Chissà se avrebbe scatenato le stesse polemiche. Ha ancora intenzione di adattare la sceneggiatura al teatro sempre che “dopo il tour promozionale il tema mi interessi quanto mi interessa ora”, chiarisce.
Di fatto il film è stato prima rappresentato a teatro e poi abbandonato. Ma il critico cinematografico Elvis Mitchell lo convinse a tenere un reading all’Ace Hotel di Los Angeles e in Quentin si riaccese l’entusiasmo.
Una cosa è certa: sebbene entrambi siano western, The Hateful Eight non è affatto il sequel di Django Unchained. “Non ho mai pensato di poter ripetere il successo di quel film (mezzo miliardo di dollari di incasso, ndr)”. E pensare che prima di girarlo “nessuno scommetteva un centesimo su un western con un nero come protagonista”.
Quali sono state le ragioni del successo? Tarantino ha una sua teoria e riguarda “l’idea che l’America è sempre pronta a fare film sulle vergogne altrui, ma non altrettanto pronta a girare film sulle proprie vergogne”.
Fa l’esempio di due episodi storici indicandoli come “i peccati originali” dell’America: la deportazione dei nativi americani agli inizi del 1900 e il commercio degli schiavi. “Sono temi che il cinema americano, tolte pochissime eccezioni, ha sempre strenuamente evitato”.
Tra le eccezioni Django e 12 anni schiavo di Steve McQueen che ha vinto l’Oscar nel 2014. “Un premio strameritato e, a suo modo, rivoluzionario”. Tarantino è del parere che quel film abbia contribuito ad allentare un po’ la tensione? Il cineasta fa una lunghissima pausa poi risponde: “Sì, allentato la tensione. È un’espressione che posso anche condividere. Era una foresta con sterpaglie altissime. Abbiamo preso il machete e abbiamo cominciato a fare un po’ di pulizia”.
Aggiunge che in ogni caso “McQueen avrebbe fatto il film anche se io non avessi fatto il mio. Certo la storia fantastica che ho raccontato con il mio film ha contribuito a preparare il terreno e a svegliare il pubblico. Così quando nelle sale è arrivato il suo straordinario film storico, la gente era pronta a capirlo e ad accoglierlo meglio di quanto avrebbero fatto se non li avessi preparati”.
(Traduzione di Carlo Antonio Biscotto)