il Fatto Quotidiano, 9 gennaio 2016
C’è un gatto morto. A Roma si discute tre giorni su chi debba portarlo via
I gatti romani hanno antiche tradizioni. Dormire sui ruderi è la più remota ma meno gloriosa, roba per i turisti o per i fotografi da cartoline. Altra tradizione etnica del gatto capoccione, questa la definizione scientifica del felino capitolino, è essere farcito di croccantini fino al rutto con esplosione dalle gattare, donne nate vecchie (mai vista una gattara sotto i sessantacinque) che si presentano coi bustoni colmi e la ciotola dell’acqua all’appuntamento nutrizionale con la torma miagolante e sovrappeso.
Terza tradizione, la più recente, nata negli anni del boom che videro la motorizzazione del Paese, è farsi ammazzare sotto le ruote delle automobili qua e là per l’Urbe. Il gatto sfranto fa parte dell’immaginario romano come le acqueforti di Pinelli, Totti e il Ponentino.
Quello che avevo sotto gli occhi sul marciapiede dove era stato pietosamente traslato dalla linea di mezzeria, aveva decisamente rispettato la terza tradizione, l’occhio non propriamente vispo e lo spessore a sogliola ne erano testimonianza. L’Ente preposto avrebbe provveduto alla rimozione della salma, io ho rivolto un pensiero devoto al giacente e sono andato. L’indomani la sogliola pelosa era ancora là. Il mio senso civico mi ha imposto di fare qualcosa, il tempo non era a favore dell’irrigidito, né de li regazzini che non se sa mai ce giocano.
Ho chiamato l’Ama, l’azienda municipalizzata che smaltisce i rifiuti in cambio di ipoteche sull’appartamento e mi sono messo in attesa. Un’attesa lunga. Ma lunga. “È sera, forse sono oltre l’orario di servizio” mi sono detto e sono andato dalla polizia, magari sarebbero stati più autorevoli di me con la municipalizzata. Mi sono scusato per la futilità della cosa, ho spiegato che però non poteva essere rimandata per alcune incombenze biochimiche e il piantone al citofono mi ha informato che non era di loro pertinenza e che dovevo chiamare il 113. Ah, ecco, il 113. Ho eseguito, piccola attesa ed eccolo, un bel vocione rassicurante con l’accento delle mie parti, sicuramente il compaesano avrebbe compreso conoscendolo il problema per esperienza come tutti noi eredi di Cesare, però mi ha detto che dovevo chiamare l’Ama. Non ho replicato, ho sperato che il gatto mutasse in lenta souplesse e ho rimandato la chiamata all’indomani.
L’indomani l’Ama ha risposto! Però mi ha detto che dovevo chiamare la polizia locale, i vigili. Ho buttato un occhio al gatto che cominciava a ricordare Terminator quando si opera da solo e ho chiamato la polizia locale che mi ha risposto che dovevo chiamare l’Ama. E va bene, non preoccuparti, amico bisognoso di esequie, ho il numero del Comune qui con me e ho intenzione di usarlo. Sì, loro il Comune avrebbe risolto il problema, rimuovendo la cosa ora un po’meno distinta che era stata un gatto. M’hanno risposto che dovevo chiamare la Asl Roma B.
Intanto la problematica aveva riscosso altre attenzioni. Anche il barista, vista la creatura dai contorni incerti sul marciapiede aveva chiamato l’Ama, a lui avevano detto che avrebbero veduto il da farsi, ma ci voleva una persona di riferimento, uno insomma che piantonasse la salma tipo Milite Ignoto fino al loro arrivo. Il barista, munitosi di pazienza l’ha fatto per un po’, poi non essendosi visto nessuno, con una rude allusione ai suoi coglioni se n’è tornato al bar. E il gatto era sempre là.
Ho chiamato la Asl Roma B che però mi ha spiegato che c’è stato un cambiamento e ora si deve chiamare Roma C, gli ho chiesto il numero, mi hanno risposto che non ce l’avevano e comunque non erano tenuti a darmelo, se volevo potevo cercarlo su Internet; con un occhio a particolari interni del gatto che cominciavano a palesarsi ho pensato di impietosirli dichiarandomi ottantenne e con la cateratta, poi in un impeto d’orgoglio l’ho cercato, ’sto numero e ho chiamato Roma C che ha ascoltato la problematica, ha realizzato che ormai si era al terzo giorno, ha detto testualmente “chissà che puzza” e mi ha informato che loro sono “un’azienda ospedaliera” e non si occupano di queste emergenze, chiami i vigili, loro forse possono fare qualcosa. Col gatto che ormai era un film di Sam Raimi, i vigili mi hanno detto che avrebbero chiamato la struttura interessata, ma non potevano garantire i tempi di intervento.
Mentre il felino assumeva un aspetto indimenticabile, provavo sia una desolata pietas per lui sia un numero che mi aveva dato quella di Roma C. Una segreteria mi informava che il numero era inesistente. Ma ecco il colpo di culo! Passa un camioncino dell’Ama, di quelli che spazzano le strade! Lo placchiamo al volo, spieghiamo la necessità di degna sepoltura, gli chiediamo se può dargliela lui, ma… “nun è de nostra competenza, io posso fa’ a segnalazzione, poi non lo so” e via a lustrare accuratamente altrove. Ultimo tentativo, col gatto ormai alla scissione molecolare: vado all’attacco di Roma Capitale (di che?). Mentre spiego l’esigenza uno mi corregge: “Signore, non Rimozione Gatti Morti, ma Recupero Gatti Morti (sic!)”. Recupero? E che li riciclate? È il colpo di grazia. Proprio i morti mi affiorano alle labbra pensando a quanto costa tutta questa gente; rivolgo un ultimo sguardo al fu gatto ormai simile alle Grandi Antille per estensione e distribuzione sul territorio e demordo. Mentre scrivo lui è ancora là. È tutto vero.