Libero, 9 gennaio 2016
Elogio dei muri
Ha suscitato sgomento e indignazione il fatto che numerosi Paesi europei abbiano eretto muri o comunque barriere, genericamente indicati come «anti-immigrati». Cominciò anni fa la Grecia. Poi toccò alla Bulgaria. Nel 2015 ha seguito l’esempio l’Ungheria di Orban, subito additata come razzista e fascista, nello sdegno generale. Poi sono venute la Slovenia e l’educatissima Austria. La «cinta» si diffonde. Come ha scritto Régis Debray nel suo piccolo capolavoro Elogio delle frontiere (2010), «ventisettemila chilometri di nuove frontiere sono state tracciate a partire dal 1991, soprattutto in Europa e in Eurasia. Altri diecimila chilometri di muri, barriere e recinzioni sofisticate sono previsti nei prossimi anni». I vertici dell’Unione Europea si stracciano le vesti di fronte ai reticolati e al filo spinato, paventando un ritorno a passate barbarie. Matteo Renzi, retorico come gli si addice, ha sempre ripetuto che l’Ue «è nata per abbattere i muri, non per costruirli». Nel frattempo, i capoccia di Bruxelles si affannano a spiegare che nel Vecchio Continente bisogna ripristinare al più presto la libera circolazione, anche se sono sempre di più gli Stati che fanno ricorso alla sospensione di Schengen.
Ora, se pure è vero che muri e barriere rappresentano il fallimento dell’Europa unita, non è affatto vero che essi costituiscono una sorta di «arretramento della civiltà» e un ritorno a un’epoca oscura. Provo a spiegare perché. Immaginiamo la società europea come un corpo umano. Per rimanere in salute, deve avere un sistema immunitario efficiente. Purtroppo, oggi il sistema immunitario europeo è fortemente indebolito. Uno dei filosofi più interessanti dei nostri giorni, che si chiama Byung Chul-Han e per una curiosa coincidenza lavora nella Germania della Merkel, sostiene che viviamo in una «società della stanchezza». Una società che sfugge al paradigma passato della «società immunologica». La nostra è una società che «si contraddistingue per la scomparsa dell’alterità e dell’estraneità. L’alterità è la categoria fondamentale dell’immunologia. Ogni reazione immunitaria è una reazione all’alterità. Ora, invece, al posto dell’alterità abbiamo la differenza, che non provoca alcuna reazione immunitaria». Prevale, qui, l’ideologia che Debray ha chiamato «senzafrontierismo»: «Si accarezza l’idea di un pianeta levigato, sgombro dall’altro, senza conflitti, restituito alla sua innocenza originale, alla pace del suo primo mattino, simile alla tunica senza cuciture di Cristo. Una Terra con il lifting, con tutte le cicatrici cancellate, dove il Male sarebbe miracolosamente scomparso». Niente confini, niente diversità fra culture e nazioni, uguaglianza spinta oltre il limite dell’uniformità.
L’Uguale trionfa, nella società europea. E l’Altro, il radicalmente diverso, scompare. In realtà, viene solo nascosto: c’è, esiste, ma non riusciamo più a riconoscerlo, perché il sistema immunitario è fiacco: non siamo più una società «immunologica», appunto. Anche perché, spiega ancora Byung Chul-Han, «il paradigma immunologico non è compatibile col processo di globalizzazione. L’alterità, che provocherebbe una reazione immunitaria, contrasterebbe il processo di abbattimento delle barriere». Il mondo del passato, invece, quello «organizzato in senso immunologico», è segnato da «una specifica topologia. È caratterizzato da confini, frontiere e soglie, da recinti, fossi e muri che impediscono l’universale processo di scambio. La diffusa promiscuità che oggi abbraccia ogni ambito della vita e la mancanza di una alterità immunologicamente attiva si implicano reciprocamente». Ecco perché dobbiamo tenerci cari i muri che sorgono, stupefacenti, da qualche tempo a questa parte, sparsi per questo continente vecchio e stanco: perché mostrano che il nostro corpaccione europeo qualche anticorpo ce l’ha ancora. Il muro è una reazione immunitaria alla globalizzazione scriteriata che annichilisce le identità dei popoli e vuole cancellare ogni confine, fisico, morale, spiriturale.
Questo fenomeno è stato analizzato da Wendy Brown in un profetico libro uscito in Italia nel 2013 (Stati murati, sovranità in declino, Laterza). La studiosa Usa spiega che negli ultimi 50 anni la sovranità degli Stati è stata seriamente compromessa da «crescenti flussi transnazionali di capitali, persone, idee, merci, violenza e appartenenze politiche e religiose. Flussi che al contempo minano le frontiere che attraversano e si cristallizzano come potere al loro interno, compromettendo la sovranità dai bordi e da dentro». L’influenza delle imprese multinazionali, le migrazioni di massa, l’esponenziale aumento dell’influenza di istituzioni economiche e «di governance» transnazionali, dal Fondo monetario internazionale all’Unione Europea. E poi il terrorismo, che non conosce confini. Ecco, tutto ciò ha fatto svaporare la sovranità degli Stati, li ha resi deboli, indifesi, esposti al vento cattivo della Storia. Allora sorgono i muri. I quali, come dice Wendy Brown, «costituiscono una reazione a relazioni transnazionali, più che internazionali, e una risposta a forze persistenti ma spesso informali o occulte, più che ad azioni militari. La migrazione, il contrabbando, l’illegalità, il terrorismo». Questi muri ci riportano a un’epoca ancestrale, fatta di «fortezze e di re, di armigeri e fossati, di guelfi e ghibellini». Motivo per cui ci sembrano non sono incongrui rispetto al mondo che ci circonda, ma pure inutili, perché con la loro durezza, con le loro punte e reti non sembrano poter arginare i flussi liquidi o immateriali.
Però i muri sono come la febbre. Ci fa star male, però segnala che il nostro organismo combatte l’aggressione, riconosce l’attacco di qualcosa di «altro» e si oppone. Quei muri significano che siamo ancora vivi, dopo tutto. O, meglio, che hanno un rigurgito di vita, dignità e sovranità i Paesi che li costruiscono per proteggere i loro popoli. L’Italia non alza muri, semplicemente si arrende a ogni forza che intenda spazzarla: dalle perturbazioni finanziarie all’immigrazione e al terrore islamico. Certo, il muro è freddo, austero, spaventoso. Impedisce ogni confronto con l’Altro (il quale, intendiamoci, non è solo una minaccia: può rivelarsi un incontro fruttifero e positivo). Ma se vogliamo davvero incontrare gli altri, i diversi da noi che ci possono arricchire, lo possiamo fare solo sulla frontiera. Quella che separa «noi» da «loro», rendendoci entrambi consapevoli della nostra particolarità. Scrive Debray: «Guardiana del proprio carattere, rimedio alla contemplazione di sé, scuola di modestia, leggero afrodisiaco, maestra di sogno, una frontiera riconosciuta è il miglior vaccino possibile contro l’epidemia dei muri». Non volete le barriere e il filo spinato? Ripristinate le frontiere.