La Stampa, 9 gennaio 2016
Quando i diari dei parroci raccontavano le follie del clima
Mentre l’Europa centrale s’infiammava in una guerra trentennale tra cattolici e luterani, giungeva da una Cina devastata da carestie e rivoluzioni il vento gelido della piccola glaciazione. E il termometro era nel posto più alto del continente, la catena alpina, cerniera di roccia dove il ghiaccio avanzava a vista d’occhio. Quando gli ultimi anni di sangue scorsero tra francesi e spagnoli, a Chamonix, ai piedi del Monte Bianco, i probiviri supplicavano il vescovo della lontana Ginevra di allontanare dalla loro montagna il demone di ghiaccio che allungava lingue polari fra boschi e case. Era il 1643, i francesci vinsero a Rocroi e Li Zicheng, a capo della rivolta contadina in una Cina dai campi aridi, poneva fine alla dinastia Ming. Quel freddo che gli scienziati definiscono il cuore della «piccola glaciazione», tra la metà del 1500 e il 1850, è stato descritto da monaci e curati alpini e non, a margine dei loro registri parrocchiali.
Scritti preziosi per gli storici del clima, com’è il professor Christian Rohr, docente all’Università di Berna, erede del professor Christian Pfister.
Glaciazione vulcanica
Il secondo millennio offre un’altalena climatica indipendente dalle attività umane: il fuoco provocò tanto gelo. Imponenti eruzioni vulcaniche che formarono pennacchi di lava e cenere alte 15 chilometri e una bassa attività solare. Il parroco di Bienne, cinque chilometri da Berna, scriveva nel 1783 che le venti varietà di verdure del suo orto «sono rimaste come in primavera». E di quella primavera scrisse «di fiori piccoli sulle piante» e di un’estate «con frutti non maturi». Si chiamava Johan Jacob Spruengli e fu uno dei primi – come ricorda Rohr – a studiare i vari fenomeni su piante e animali in relazione al tempo. Era l’anno dei 130 crateri aperti in Islanda dal vulcano Laki. Spiega il professore svizzero: «Fino alla metà dell’Ottocento non si parlava di clima, ma di tempo. È così che le cronache dei parroci hanno annotazioni su piogge o nevicate, su nubi o sole caldo, ma non c’è una visione generale del fenomeno climatico». In queste cronache ci sono note di rarità, viste con gli occhi di oggi, come la spanna di ghiaccio che si formò sul Po nel 1665, rendendolo simile a un fiume russo. Gelo paralizzante, come quello del Tamigi, che si ripeté negli inverni del 1676 e del 1677. L’anno orribile della Francia fu il 1709, quando regnava, ironia della sorte, il Re Sole, Luigi XIV. La cognata, Elisabetta Carlotta del Palatinato annotava: «Il vino gela nelle caraffe, l’inchiostro si gela in punta alla penna d’oca». Il Po gelò anche nel 1282, ma fu un’anomalia, allora l’Europa era più calda rispetto ad oggi. Un curato scriveva, come ricorda a distanza di qualche secolo il parroco di Cremona Clemente Fiammeni: «Si patì un gelo tale che il Po si ghiacciò e sosteneva i carichi fino a Venezia». La peste manzoniana, quella del Seicento, fu devastante «anche a causa del clima», sostiene l’antropologo Annibale Salsa. Spiega: «La carenza di vitamina D, conseguente alla scarsità di giornate di sole, e la riduzione di vegetali nel regime alimentare dovuta al freddo che impedì colture e pascoli, ridusse le difese immunitarie».
Gli storici del clima
Ci sono dodicimila fogli scritti in gotico che descrivono cosa accadde nel Seicento. Sono di Joseph Dietrich, monaco benedettino di Einsiedeln, in Svizzera. Pfister e Rohr hanno manoscritti zeppi di annotazioni sull’evoluzione climatica. E ora lavorano su altri manoscritti, del decennio 1760-1770. In pochi secoli l’Europa che coltiva grano fino negli alti campi alpini, anche a 2000 metri e aveva boschi di conifere dove oggi c’è il ghiaccio, a Plateau Rosa, in faccia al Cervino, si ritrovò a dover convivere con un freddo siberiano. I ghiacciai, prima ridotti a macchie candide diventarono lingue chilometriche. E fiorirono leggende, superstizioni e benedizioni. Suppliche e processioni perché i ghiacci del Monte Bianco o del Monte Rosa smettessero di crescere.