La Stampa, 9 gennaio 2016
A proposito del reato di clandestinità, ad Agrigento ci sono tredici pm impegnati da tre anni e nessuna condanna eseguita
Vista da qui, da questo palazzone della procura di Agrigento con il pronao neoclassico e la scritta «Iustitia», la legge sull’immigrazione clandestina è una specie di grande gioco di ruolo. O forse una fatica di Sisifo dove tutti sanno, già all’inizio, che il masso portato sulla montagna rotolerà sempre a valle. «La legge non è servita a nulla, se non a ingolfare le stanze degli uffici giudiziari. Certo non a scoraggiare gli arrivi», commenta amaro il procuratore della Repubblica Renato Di Natale, che detiene il record di fascicoli aperti per il reato di immigrazione clandestina, alimentati dagli sbarchi a Lampedusa.
Una mole di carte e di files. Cinquantamila fascicoli negli ultimi tre anni: 26 mila soltanto nel 2015, in gran parte smaltiti tra rinvii a giudizio e richieste di archiviazione. Cinquantamila faldoni che occupano una grande stanza con un’immensa scaffalatura, quattro computer, un ufficio di segreteria, tredici viceprocuratori onorari che indagano spesso – per non dire sempre – su fantasmi.
«La procedura – spiega il capo dei pm di Agrigento – si apre allo sbarco, non appena i migranti vengono identificati dall’autorità giudiziaria. Identificati per modo di dire, visto che dichiarano nomi inventati. Magari cinque anni dopo scopriamo le loro vere generalità, individuate da altre procure attraverso le impronte digitali. Se siamo nella fase investigativa correggiamo i dati, ma quasi sempre è troppo tardi. Allora prendiamo atto del fatto che abbiamo rinviato a giudizio persone che non esistono, e apriamo un altro fascicolo per false dichiarazioni».
Migliaia e migliaia di Abdelhamid, Abdul, Bachar, Chaib, Fahd, Hassan, Mohammed, Nailah, Salama sono stati processati e condannati senza esistere davvero, in una Babele di cognomi e trascrizioni impossibili, di falsi Paesi e false storie. È difficile credere che gente disposta ad affrontare viaggi nel deserto, angherie dei trafficanti di uomini, torture in Libia, traversate su carrette del mare possa essere scoraggiata dal rischio di una condanna per immigrazione clandestina che consiste in cinquemila euro di ammenda. «Già è un’impresa inviare all’interessato il decreto di citazione a giudizio – continua Di Natale – perché i migranti dopo lo sbarco vanno chissà dove. Li cerchiamo attraverso le questure e mandiamo loro i decreti dove abbiamo notizia che si trovino. Una, due, tre volte. Fin quando ci arrendiamo e facciamo un decreto di irreperibilità». Quando ci si riesce, il migrante viene rinviato a giudizio, a meno che non abbia nel frattempo richiesto lo status di rifugiato politico. Ed è anche qui il caos, perché le commissioni dovrebbero decidere in pochi mesi e invece passano anni. Clandestino o rifugiato? Centinaia di migliaia di esistenze (e di processi) sono appese a un sottile filo giuridico. Infine, quando il gioco dell’oca arriva all’ultima casella, c’è la condanna. Altrettanto virtuale. Perché al migrante con nome quasi sempre finto, e sempre assente, viene inflitta la sanzione. Ovviamente inesigibile dallo Stato. «Non ricordo che ne sia stata incassata neanche una», dice Di Natale.
Ad Agrigento, di fronte all’incalzare degli sbarchi, il procuratore ha tirato fuori dal cappello la carta dei giudici onorari, pagati 60 euro a udienza. Una macchina assolutamente inutile, ma efficientissima, che si nutre di sessantuno cancellieri, degli avvocati d’ufficio, dei testimoni, questi ultimi per lo più poliziotti e carabinieri che hanno identificato il migrante al momento dello sbarco. Nel frattempo, i giudici ordinari indagano sui reati legati all’immigrazione di ben altro calibro: scafisti, traffico internazionale, tratta delle donne. I migranti? Quasi mai testimoniano. Sono indagati e preferiscono tacere.