la Repubblica, 9 gennaio 2016
La ricetta della caponata di Carmen Consoli
Varcata la porta anonima sulla strada, dalla scala in su segni di bellezza. C’è profumo di libri nell’appartamento della vecchia Catania, dischi e antichi tomi di diritto ben conservati e allineati con la stessa cura e la stessa dignità. La piccola corte di donne si muove da una stanza all’altra con una quieta frenesia che Tomasi di Lampedusa avrebbe adorato. Un perfect day che stamattina ruota intorno a Carlo Giuseppe, l’ultimo arrivato, il figlio che Carmen Consoli ha avuto due anni e mezzo fa, senza marito ma non certo carente d’affetto, con quella schiera di mamme capitanate dalla nonna Maria Rosa, arredatrice d’interni e giardini che senza dubbio ha curato quell’ambiente chic e délabré in cui vive la figlia cantautrice (qualcuno la chiama cantantessa – che impressione, fa pensare a una sirena col corpo di rettile), 41 anni, oltre due decenni di successi, un bell’album recente, L’abitudine di tornare, un capolavoro pubblicato cinque anni fa, Elettra. Niente fa pensare al nido di una star, all’alcova di una diva, della songstress osannata anche dal New York Times più intensa della Cotillard nel ruolo di Piaf. Cos’è questa verghiana normalità? Il frutto di una carriera fulminante scevra di compromessi? «I compromessi? Li ho accettati eccome», ribatte la Carmen, che il 20 gennaio debutta, a Roma, con un nuovo tour. «Compromesso non è un sostantivo necessariamente negativo. C’è un compromesso in alto e un compromesso in basso.
Oggi, ad esempio, ho accettato di andare dal parrucchiere (non ci vado mai) perché dovevo incontrare lei. È una caratteristica di noi del sud, quando arriva il forestiero si fa trovare la casa in ordine e si mostrano le cose più belle. Anche il palco pretende i suoi compromessi. Io, ad esempio, non ci sono mai salita senza tacchi e un filo di trucco». E i compromessi in basso? Non sono stati una tentazione per una sedotta da Janis Joplin, Jimi Hendrix e la mitologia? «Quelli no, mai! Farei a meno del successo piuttosto. A me ‘sto successo nu’ m’interessa. Nun sugnu comm’a Nutella che piace a tutti», incalza col delizioso accento catanese. «Pare che Gesù abbia detto, se mostri quel che hai dentro ti salverà, se mostri quel che non hai dentro ti ucciderà. Io chista sugnu, non ce la faccio a essere diversa. Sulla carta ero destinata a diventare avvocato, perché vengo da una famiglia di legali e magistrati, il mio bisnonno, Cardillo, era uno tra i giuristi più importanti d’Italia».
In realtà la giurisprudenza non l’ha mai appassionata, s’iscrisse a lingue e letterature straniere. Voleva laurearsi e continuare a suonare per hobby. Magari poteva diventare un’insegnante, o una giornalista. Sognava di aprire un ristorante. «Ristorazione intesa come cultura», precisa, «per nutrire lo spirito».
Una vita piena di compromessi in alto non è considerata salutare dallo star system. Neanche da quello made in Italy che non è spietato, non miete vittime, all’americana per intenderci. Non per la numero uno del pink-indie-rock nazionale. «Non mi avvicino alla musica in maniera stanca e routinaria. Nessun obbligo, perché è da lì che inizia il compromesso in basso», spiega. «Il fatto che sia stata cinque anni ferma dimostra che non devo per forza fare dischi per vivere. Ho altre attività, quelle di famiglia, gestisco case vacanza e sono un imprenditore agricolo, produco olio e ciliegie. Mio padre si occupava di tante cose, da quando non c’è più mia madre e io portiamo avanti la sua tradizione di enologo e agronomo. Diciamo la verità, non ci capisco granché e mi faccio fregare, ma non ho alternative, sono figlia unica». Allora, scusi, la musica è il compromesso in basso? Un’attività collaterale? «La musica funziona finché mi diverte. Se non mi dà gioia taccio. Sono tornata a cantare dopo cinque anni in un mondo intossicato dai social, inflazionato dai selfie, io che ero rimasta alla macchinetta fotografica (in realtà non ha neanche il cellulare). Anche se Matteo Renzi diffida di chi prende le distanze dai social, io lo faccio, mica sono in campagna elettorale, non vado di fretta come lui. Ho avuto la stessa crisi che ebbe Gabriel García Márquez quando, dopo l’avvento della televisione, per il terrore di non riuscire più a suggerire visioni con carta e penna, scrisse
Cent’anni di solitudine».
I compromessi di Carmen hanno tutti nomi non imparentati con musica e carriera. Sport, cinema, architettura, cucina, tradizio- ni, spiritualità (è buddista praticante), cromoterapia; sono quelli che gli altri chiamano hobby. «Mi ricreo quando all’estero, a Parigi (dove ha casa), Londra o Berlino, vedo i ragazzini alle mostre di Lucian Freud. Prova a mandarci un quattordicenne di Catania, sai i vaffa.... Carlo, mio figlio, ha preso da me. Guarda i quadri che abbiamo in casa e li vuole spiegare. Neanche articola bene, parla come uno della Lega, esprime i bisogni principali, ma è molto preciso e diretto. D’altronde metà della mia famiglia, da parte di madre, è veneta, quindi ci sta… Adoro Lelouche e non smetterei mai di rivedere L’angelo sterminatore di Buñuel. È quello il cinema che mi ha fatto riflettere e ha generato la scrittura di molte canzoni. Anche gli italiani con desinenza in “ini” hanno fatto un grandissimo cinema. Faccio i miei progetti di architettura, piccoli piccoli. Plastici a scala ridotta, se vuole le mostro quello del bagnetto che sto ricavando nello studio di registrazione. La passione per la cucina l’ho ereditata da nonne e bisnonne; conservo le ricette scritte a mano, le custodisco gelosamente, tutte scritte su carta ionizzata, che è più resistente all’usura del tempo. Sono per la cucina tradizionale, altro che Masterchef. Sono anche in fissa con la corsa e il tennis e la creta e le sculture di zucchero. L’unica cosa di cui non m’intendo è ‘u ballettu, chillu proprio nun u sacciu, forse perché me l’hanno imposto da piccola, otto anni di danza classica e di portamento senza alcun profitto».
Si lascia pigramente distogliere da tutto quello che non è carriera, i compromessi in alto le consentono puntualmente di tornare alla musica più fresca e entusiasta che agli esordi. Forse è quello il motivo per cui il suo amico Battiato ha cominciato a dipingere. «È lui che mi ha fatto capire che per illuminarci abbiamo bisogno anche delle sporcizie, come il loto che cresce dal fango», incalza. «Alla fine ho capito che tutto converge. Scrivo quel che scrivo perché papà mi portava nei campi, m’illuminava coi miracoli delle stagioni, l’allegria della raccolta, la saggezza contadina, la “luce pecoraia” che guida i pastori – che poi sono le lucciole: quando il pastore le vede sa che è in corrispondenza di un precipizio. Papà m’insegnò le proprietà degli asparagi selvatici e dei melicucchi, delle carrube e del mallo di noce, che si usa per le tinture ma anche per fare il nocino – che io naturalmente sacciu fari, come so fare il lievito madre e la pasta fatta in casa. So a mente anche la ricetta della vera caponata che mai in rete potrete trovare: melanzana, peperone, qualcuno ci mette la patata, ogni ingrediente soffritto a parte, poi la salsa con la cipolla, il sale e tutto il resto… basilico, sedano, capperi, pinoli. olive verdi. Nel momento in cui unisci il sugo con le verdure che hai fritto non è ancora una caponata, perché manca l’agrodolce, che è la cosa più complicata che esista al mondo. E infatti qui internet toppa, perché tutto dipende da una serie di variabili legate alla qualità delle verdure. Sa cosa ti dicono i vecchi? Fate a occhio! È il momento dell’agrodolce che mi fa venire l’ansia da prestazione. Nelle ricette che ho ereditato dalla mia bisnonna si parla anche di cacao. Alla fine, ’na sbrizziata di cacao amaro».