Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  gennaio 09 Sabato calendario

E il canarino dice che la tempesta non è passata

Il canarino non sta bene e dobbiamo tutti preoccuparci. Alla Goldman Sachs, alla Ubs, alla Morgan Stanley, le grandi banche di investimento mondiali, gli analisti parlano spesso del “canarino nella miniera”. Un tempo, si portava giù nei giacimenti di carbone una gabbia con un canarino. Il pericolo era il formarsi di gas inodori, ma esplosivi, come il “grisou”. Se il canarino moriva asfissiato, i minatori si affrettavano ad uscire. Nell’economia di oggi, il canarino nella miniera è, meno drammaticamente, il dato sulle esportazioni coreane. Seoul esporta un po’ a tutti e di tutto: auto, navi, petrolchimica, elettronica di consumo. Il dato ci dice cosa e quanto importa il resto del mondo. Be’, a gennaio il canarino sudcoreano dà vistosi segni di malessere: l’export è sceso del 13,8 per cento rispetto ad un anno fa. Il valore scientifico del canarino di Seoul è zero, ma, a naso, ci si prende: nei grafici, la curva dell’export sudcoreano si sovrappone quasi esattamente a quella delle esportazioni mondiali. Del resto, non è un segnale isolato. Un altro indicatore senza pretese, ma attendibile, registra pessimismo sul commercio mondiale. È il Baltic Dry Index, che registra l’andamento dei carichi navali secchi. Per quelli liquidi, cioè il petrolio, non c’è bisogno di termometri: il greggio sta a marcire nel ventre delle petroliere ancorate fuori dai porti, perché non trova compratori e il prezzo rotola verso il basso. Per i carichi secchi non va molto meglio. Il Baltic Dry Index ha perso il 40 per cento nel corso dell’ultimo anno: sostanzialmente è in caduta libera dallo scorso agosto. Se poi volete sapere specificamente delle merci dentro i container, il gigante mondiale del settore, la Maersk, sta licenziando da mesi.
Gli economisti registrano e si adeguano. Il 2016 andrà un po’ meglio del 2015, ma molto meno di quanto si sperava. A ottobre, il Fmi aveva previsto per quest’anno una crescita mondiale del 3,6 per cento. Non più. Christine Lagarde, che del Fmi è il direttore esecutivo, ha già detto che la crescita 2016 “deluderà”. Quanto? I suoi dirimpettai della World Bank hanno avanzato una cifra: un modesto 2,9 per cento. Meglio del 2,4 per cento del 2015, ma ben lontani dai tassi del 5 per cento abituali nei vent’anni precedenti alla Grande Recessione. Non è un fulmine a ciel sereno. Il rallentamento mondiale è conseguenza diretta del rallentamento cinese, evidente già ben prima delle attuali convulsioni di Borsa. Ma se Pechino perde colpi vuol dire che importa meno materie prime e meno semilavorati da rifinire nelle catene produttive internazionali che si concludono in Cina. Il contraccolpo l’hanno senti- to i paesi emergenti – Brasile, Messico, Indonesia – che esportavano in Cina e che vengono insidiati alle spalle da un altro pericolo, questa volta americano: il rialzo del dollaro. Molte di queste economie hanno debiti calcolati in dollari e il rialzo della valuta Usa significa che quei debiti, senza che loro abbiano fatto nulla, sono diventati più pesanti.
In teoria, il testimone dello sviluppo dovrebbe essere raccolto dai paesi avanzati, dove la ripresa c’è. Ma quella europea è drammaticamente flebile. Meno del 2 per cento, dopo otto anni di crisi, nonostante le potenti trasfusioni di sangue del petrolio ai minimi e della liquidità a gogò della Bce. Anche nelle economie più vitali come quella tedesca. Anzi, pure la Germania, segnala la Barclays, se si guardano i dati veri e non i sondaggi sulla fiducia, non viaggia a gonfie vele: a novembre, si prevedeva che la produzione industriale sarebbe salita di mezzo punto, rispetto a ottobre, invece è scesa dello 0,3 per cento.
E anche l’ultima locomotiva disponibile, l’America, non viaggia a pieno regime. I servizi tirano, l’occupazione aumenta, ma i salari si muovono troppo poco per dare una base solida ai consumi e l’industria manifatturiera (che in assoluto pesa solo per il 10 per cento, ma che nei fatti, fornisce tutto quello che gli altri vendono) è al livello più basso dal 2009. L’aumento dei tassi appena varato dalla Fed potrebbe anche restare figlio unico o quasi, quest’anno, visto gli umori che girano alla banca centrale Usa. Un indicatore – anche questo approssimativo – come quello sulla crescita preparato dalla Fed di Atlanta ha già virato al peggio: a novembre prevedeva un aumento del Pil 2016 al 3 per cento. A inizio gennaio allo 0,7 per cento.
Sono queste cifre a preoccupare gli economisti. A voler essere pignoli e a stare ai dati, la ripresa, sia in America che in Europa, c’è. Si può solo dire che appare piuttosto fragile. Ma, ancora una volta a naso, i conti non tornano. Dopo la crisi del 2008, era legittimo aspettarsi, soprattutto in America, un rimbalzo: un tasso di sviluppo almeno del 3 per cento per qualche trimestre. Invece, crescita pallida che arriva a fatica al 2 per cento. Come sa chiunque sia stato su un campetto di calcio, la palla sgonfia si può prendere a pedate, ma si gioca male.