l’Espresso, 8 gennaio 2016
Riina voleva il panettone per Natale
Con il suo pigiama di flanella bianco a righe celesti l’anziano Totò Riina, 85 anni, se ne sta seduto sul bordo del lettino all’ospedale di Parma, in attesa degli inservienti con il pranzo. È il giorno di Natale e il boss ricoverato per una crisi respiratoria appare curioso di conoscere il menù della giornata. Contrariamente a quanto trapelato sui media, non sembra affatto in fin di vita o in condizioni disperate. È un ottantenne con i suoi acciacchi a cui non pesa la coscienza per i tanti delitti eseguiti ed ordinati. È il giorno di Natale ed è in questa stanzetta dell’ospedale che attende il vassoio con il cibo. Non può ordinare alla carta come era abituato a fare durante la sua lunga latitanza a Palermo. Così quando l’inserviente arriva con il vassoio, scortato da un agente della polizia penitenziaria, e lo lascia su un carrello, il pranzo è servito. Riina però non nasconde la delusione. Lo si nota dai suoi movimenti: alza i tovaglioli, sposta un piatto, apre un piccolo contenitore in plastica sigillato per la verdura, cerca e ricerca, in silenzio, ma quello che desidera non c’è. Il vecchio corleonese non crede ai suoi occhi: fra il cibo che gli è stato consegnato manca «un dolcetto di Natale». La cosa lo irrita. «Nemmeno una fetta di panettone mi fanno mangiare...», biascica a denti stretti, come se questa cosa gli fosse dovuta. E poi sgrana gli occhi e dice a bassa voce: «È una vergogna!».
Chissà cosa si aspettava Riina dal menù natalizio. Forse sperava di ricevere un vitto più confortevole di quello che gli spetta durante il suo soggiorno in carcere, sottoposto al regime penitenziario più duro. Ma il personale che lo cura gli ha ricordato che era un paziente come tutti gli altri: l’alimentazione veniva decisa in base al quadro clinico.
Il padrino corleonese era stato trasferito in ospedale dieci giorni prima, quando ha avuto una crisi respiratoria in cella. Un ricovero d’urgenza che ha fatto saltare le udienze di alcuni processi in cui è imputato, così improvviso da far pensare che fosse in pericolo di vita. Invece del dolcetto di Natale tanto atteso, i medici si sono concentrati nel somministrargli terapie farmacologiche. Il vecchio boss ha faticato a ingoiare qualche pillola perché le rifiutava ed ha guardato con sfida le persone che gli infilavano aghi delle flebo o delle siringhe. Prima di Capodanno, le sue condizioni sono migliorate ed è stato riportato in cella.
Il reparto detenuti dell’ospedale il padrino lo conosce già. Lo scorso febbraio è stato ricoverato per altri problemi di salute e poi c’è ritornato a maggio. Per il suo goffo modo di muoversi, e il fisico sempre più robusto, hanno iniziato a chiamarlo “Scaldabagno”, un nomignolo che non incute terrore ma sembra aver sostituito quello che i mafiosi gli avevano dato: “Totò ù curtu”. Il nome di battaglia di altri tempi, che lui non ha dimenticato. Molti mesi prima nel cortile del carcere milanese di Opera, Riina raccontava alla sua “dama di compagnia”, Alberto Lo Russo, di quando aveva fatto, da latitante, il viaggio di nozze a Montecassino. «Ci ho portato a mia moglie. Una volta che ero libero, ho detto: “Ora ci vado...” Poi sono salito verso Venezia. Io la vita l’ho presa così, mi sono sentito sempre libero». Rideva Riina passeggiando nel cortile del penitenziario, mentre diceva la sua sulla storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, raccontando anche la vita da latitante, quei 24 anni in cui il capo di Cosa nostra ha vissuto più o meno indisturbato non troppo lontano dalla sua Corleone, sposandosi, facendo nascere in clinica tre figli, ordinando stragi e omicidi, stringendo patti con la politica.
Mai un cenno di rimorso. Mentre ha sempre fatto leva sulle sue condizioni di salute per ottenere la scarcerazione, chiedendo il “differimento della pena": la misura che viene concessa quando le malattie di un detenuto ne rendono impossibile la detenzione. L’uomo mai sostituito al vertice di Cosa nostra ha messo nero su bianco la richiesta di passare agli arresti in casa. Il tribunale di sorveglianza di Bologna alla fine dell’estate di due anni fa ha rigettato le istanze, ritenendo «insussistente» alcun «vulnus alla tutela del diritto alla salute del condannato». Inoltre, «quanto alla pericolosità sociale», i giudici hanno scritto che «la caratura criminale» di Riina non consente «una prognosi di assenza di pericolo di recidiva ove si consideri la tipologia di reati commessi, non necessariamente implicante prestanza fisica».
La sua latitanza si è conclusa a Palermo il 15 gennaio 1993, sulla circonvallazione della città. Quando il volto del capo dei capi apparve in televisione, sorprese tutti: nessuno immaginava che un personaggio così goffo, piccolo, dagli occhi sgranati, potesse essere il mafioso feroce che le cronache giudiziarie avevano dipinto. I giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano però compreso lo spessore criminale di Riina, il paesano dalle “scarpe infangate”, personaggio ben diverso da quello che si sforzava di apparire sui media.
La storia di Riina è soprattutto la storia di un gruppo di picciotti di Corleone, malridotti e spietati allo stesso tempo, che danno la scalata alla gerarchia di Cosa nostra, che fino ad allora aveva le sue regole, le sue leggi e una sia pur distorta moralità. Teorico della violenza totale e dell’inganno sistematico, all’interno di un progetto lucidissimo quanto folle, massacro dopo massacro, Riina spazza via l’organigramma eccellente del parlamento mafioso. Il capo corleonese cancella le regole a colpi di tritolo e come ha sostenuto il pentito Tommaso Buscetta, soltanto un potere superiore, una «entità», è riuscita ad assicurargli una latitanza di 24 anni.
Nel carcere di Parma è arrivato ad aprile del 2014, dando il cambio all’altro boss corleonese, Bernardo Provenzano, che ha fatto il percorso inverso, passando dal penitenziario emiliano a quello milanese di Opera. In cella l’anziano “Binu” c’è rimasto poco, perché sta male. Anche lui ha trascorso il Natale in ospedale. Per mantenere in vita Provenzano è necessario che prosegua il suo ricovero in isolamento nella camera di sicurezza allestita al San Paolo di Milano. Se il boss venisse collocato in un reparto ospedaliero comune, la sua sopravvivenza sarebbe a “rischio”, per la “promiscuità” dell’ambiente. Tutto ciò lo sottolineano i giudici della Cassazione che nell’estate scorsa hanno confermato il carcere duro per il boss.
La sua situazione è molto lontana da quella di Riina, ritenuto ancora in grado di nuocere. Invece le patologie di cui soffre Provenzano sono «plurime e gravi di tipo invalidante», spiegano i magistrati della Cassazione, accennando al grave decadimento cognitivo e motorio, assieme ai postumi di varie operazioni. Con una valutazione paradossale: il duro regime carcerario del 41 bis, nato per impedire le comunicazioni dei padrini, adesso è diventato una modalità necessaria alla sopravvivenza dell’uomo che per 43 anni è stato latitante e reggente al vertice di Cosa nostra, e che ora è solo un essere inerte e incosciente.