Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2016
Perché il mercato non si fida delle mosse cinesi
Diffidenza. Se non, addirittura, mancanza di fiducia. È il sentimento di molti investitori nei confronti della Cina. Gli interventi improvvisati delle autorità di Pechino generano infatti la sensazione che Governo e Banca centrale non abbiano veramente in mano la situazione. Che si muovano a tentativi. Questo crea un’incertezza di fondo sui mercati globali.
Vedere una banca centrale che prima brucia riserve valutarie per sostenere la sua moneta, ma poi la lascia svalutare di tanto in tanto senza alcun preavviso, crea perplessità sui mercati. Osservare poi le Autorità che intervengono in Borsa con una massiccia dose di dirigismo crea ulteriore apprensione. Per non parlare del tradizionale scetticismo sui dati macroeconomici e delle grandi contraddizioni di un Paese a metà strada tra l’economia di mercato e quella pianificata: tutto questo spaventa gli investitori. E?ingigantisce il contagio sui mercati del mondo.
L’apprendista stregone
Il primo bersaglio dello scetticismo globale è la Pboc, cioè la Banca centrale cinese. In un recente sondaggio di Rbs tra 150 grandi investitori mondiali sulla credibilità e l’indipendenza delle banche centrali, proprio quella della repubblica Popolare è risultata all’ultimo posto: in un punteggio da uno a 10, ha totalizzato un misero 2. Numero che si raffronta con il 7 della Federal Reserve Usa e della Bce.
In effetti la cronaca degli ultimi mesi lo dimostra. Per far fronte alla poderosa fuga di capitali dalla Cina, che preme al ribasso sulla valuta nazionale (lo yuan), la Banca centrale è stata costretta vendere dollari: cioè a «bruciare» parte delle proprie riserve valutarie. Questo ha impedito un forte deprezzamento dello yuan, ma – per contro- ha ridotto quell’arsenale finanziario enorme costituito proprio dalle riserve valutarie: la Banca centrale cinese dispone tutt’ora di 3.320 miliardi di dollari (una cifra enorme), ma si tratta di 374 in meno rispetto a giugno 2015 e di quasi 700 in meno rispetto a un anno e mezzo fa. L’arsenale, dunque, si assottiglia. È anche (non solo) per questo che di tanto in tanto la Banca centrale lascia svalutare la moneta: perché difenderla le costa troppo.
Così facendo, però, alimenta l’incertezza nel mondo. Innanzitutto perché le svalutazioni avvengono in maniera improvvisa, senza che l’istituto centrale faccia capire le proprie intenzioni o i propri obiettivi. Secondo perché la montagna di riserve, seppur possente, inizia ad apparire sempre più esigua rispetto all’enormità dei problemi cinesi. Terzo perché?la politica ultra accomodante della banca centrale negli ultimi anni (una specie di quantitative easing) sta pesando sul suo bilancio:?attualmente – secondo i calcoli di Alberto Gallo di Rbs – nella sua pancia ci sono prestiti, attivi o titoli per un’ammontare superiore al 50% del Pil. Tantissimo, se si pensa che la Fed Usa dopo tre quantitative easing ha un bilancio pari al 20%?del Pil americano. Questo espone dunque la banca centrale a possibili perdite. E, soprattutto, ne riduce la credibilità.
Vendere in Borsa??Vietato
Discorso simile si può fare sulle Autorità che disciplinano il mercato azionario. Ieri hanno sospeso il meccanismo automatico (in vigore in molte Borse mondiali tra le quali quella di New York), che blocca le contrattazioni azionarie in presenza di un ribasso del 7%. Per contro hanno mantenuto il divieto di vendere partecipazioni azionarie superiori al 5%. E negli ultimi giorni hanno sguinzagliato ancora una volta il «national team», cioè il gruppo di «volenterose» aziende pubbliche che quando la Borsa crolla comprano azioni per contrastare il ribasso. Questo non può che disorientare gli investitori internazionali, che si trovano di fronte a interventi dirigisti.
Il Pil «truccato»?
Ma la «madre» di tutte le incertezza in Cina riguarda l’andamento economico. Nel terzo trimestre del 2015 il Pil è cresciuto del 6,9% rispetto a un anno prima. Gli economisti, però, tendono a credere poco a questo numero. Il motivo? Banale:?altri indicatori sembrano segnalare un rallentamento molto maggiore.
Per esempio il consumo di energia elettrica. Dato che la Cina è un Paese manifatturiero, le sue fabbriche utilizzano molta elettricità: così Pil e consumi energetici sono sempre andati di pari passo. Calcola David Fridley del China Energy Group, che dal 2005 al 2013 mediamente per ogni punto percentuale di crescita del Pil la domanda di elettricità è cresciuta dell’1,09%. Insomma:?storicamente il consumo di energia è aumentato leggermente più del Prodotto interno lordo. Negli ultimi anni, tuttavia, l’equazione si è spezzata:?nel 2014 il Pil è aumentato del 7,3%, ma il consumo di energia (secondo la National Energy Administration) è salito di appena il 3,8%. E nel 2015 lo sfasamento è stato ancora più clamoroso:?l’economia è cresciuta del 6,9% mentre il consumo di MegaWatt di appena lo 0,6%?(dato di novembre). Certo: Pechino sta virando sempre più verso i servizi. L’improvviso scollamento tra Pil e consumi energetici, però, rimane clamoroso. E dati simili arrivano dal consumo di molte altre materie prime. Ecco perché nel mondo tanti ritengono poco attendibili i dati sul Pil cinese.
Le banche «ombra»
Altro tema d’incertezza è il cosiddetto «shadow banking». Cioè un sistema alternativo d’erogazione dei prestiti alle imprese che, in Cina, vale circa il 34% del Prodotto interno lordo. Un mondo, in grande parte deregolamentato, che crea instabilità e diffidenza. Non solo perché una enorme massa di credito alle imprese cinesi è erogata da società finanziarie o para-bancarie poco trasparenti. Ma soprattutto per una certa disinvoltura nell’utilizzo delle garanzie che fanno fronte ai prestiti.
Basti pensare al cosiddetto «commodity based financing», meccanismo molto diffuso in Cina per far arrivare credito non bancario alle imprese. Si tratta di un meccanismo che prevede la stipula, ad opera di un intermediario, di un contratto per acquistare materie prime. Ebbene il documento permette al broker, da una parte, di andare in banca per aprire il fido da utilizzarsi nella compravendita della commodity. E, dall’altra, di chiedere l’attestazione dell’occupazione di uno spazio, ad esempio in un silos, dove la merce sarà depositata. Fin qui, si dirà, nulla di strano. Vero! E però, grazie al certificato sul deposito, l’intermediario potrà farsi anticipare parte dei danari finalizzati all’acquisto delle materie prime. Soldi, ed è qui che si concretizza il sistema bancario ombra, che saranno prestati ad aziende cui la tradizionale banca mai avrebbe dato alcun finanziamento. A fronte di ciò ben si capisce quindi come, con l’attuale crollo dei prezzi delle materie prime, il meccanismo rischi di andare in crisi. Analogamente alla stabilità del sistema finanziario che, senza un serio intervento delle autorità, è a rischio implosione.
Arma di pressione
C’è poi un altro tema che mina la fiducia degli investitori Occidentali nella Cina:?la sensazione – ovviamente non più di questo – che Pechino usi il cambio valutario come arma di pressione per raggiungere accordi vantaggiosi a livello internazionale. Lo dimostrano alcuni eventi, che appaiono troppo sincronizzati per essere solo coincidenze.
Pechino, per esempio, nel 2015 ha puntato molto sull’ingresso dello yuan nel paniere delle valute con speciale diritto di voto (Sdr) del Fondo monetario. La formalizzazione entro fine anno era considerata scontata. «Però gli Stati Uniti, – ricorda Antonio Cesarano di Mps Capital Services – a inizio agosto, hanno iniziato a temporeggiare». Così, guarda caso, dall’11 al 13 dello stesso mese è arrivato il fulmine a ciel sereno: lo yuan è stato svalutato del 5%. Dopo di che? «Si è arrivati, in uno scenario di tranquillità per lo yuan a fine novembre, all’ok dell’ingresso della moneta nel paniere dell’Fmi».
Poi, sarà di nuovo una casualità, a fronte del peso del dollaro negli Sdr rimasto invariato (contro le richieste cinesi) il cambio è tornato sotto pressione. Una svalutazione lenta, ma progressiva, che è sfociata nel crollo dello yuan degli ultimi giorni. È vero: la mossa della Banca Popolare Cinese (BPoC) può essere dettata dalla volontà di spingere l’export del «Made in China». «Tuttavia – afferma Cesarano – deve ricordarsi che in questi giorni si discute della concessione alla Cina dello status di economia di mercato». Pechino, in base agli accordi del 2001 sul suo ingresso nel Wto, ritiene che il riconoscimento debba avvenire automaticamente alla fine del 2016. L’Europa invece è contraria. E di recente la sua posizione sembra appoggiata anche da Washington. Sarà un caso, ma proprio in questo momento è arrivato l’ennesimo intervento sui cambi. Può sembrare una semplice suggestione. Tuttavia si sa: a pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca.