la Repubblica, 8 gennaio 2016
Jovanotti ha quasi cinquant’anni, e ha voglia di cambiare. Intervista
La mattina dopo il concerto Jovanotti ha una faccia che è uno spettacolo: appagata, sorridente, ma per certi versi spettrale, diciamo aggravata dalla fatica di una serata che, nel suo caso, è sempre speciale, unica, invariabilmente generosa. «Beh, avendo quasi cinquant’anni devo anche stare attento a certe cose, seguo un programma di alimentazione, insomma ci vuole una certa preparazione, o meglio diciamo che l’energia non manca, quando sono sul palco è come se avessi diciannove anni, quello che comincia a venire meno sono i tempi di recupero, la sera ho diciannove anni, il giorno dopo ce li ho tutti e quarantanove». Eppure, quello che davvero sorprende, al di là della encomiabile fatica del protagonista della serata, è la risplendente potenza di una macchina di spettacolo che macina chilometri, spazi, folle, e che coinvolge centinaia e centinaia di persone, un modello particolarmente virtuoso di imprenditoria, tutta fondata sulla qualità, sull’innovazione, sul merito, sulla modernità, in un certo senso un pezzo d’Italia che ci piacerebbe fosse esteso molto al di là dell’orizzonte dei concerti.
Quanta consapevolezza c’è di questo aspetto imprenditoriale?
«La consapevolezza è totale, anche se mi guardo bene dal propormi come un modello virtuoso. Io alla fine sono sempre legato all’idea del deejay, quello che mi interessa è che la pista non si svuoti. Però sì, mi rendo conto, il progetto è quello, ovvero partire dai miei limiti e cercare di trasformare questi limiti in luoghi da riempire con la qualità delle persone con cui lavoro, si tratta non tanto di dirigere il traffico ma di capire cosa serve alla cosa che stai facendo, e allora diventa come una fabbrica di San Pietro, un progetto infinito che non arriva mai a una conclusione. È un’azienda, è vero, o meglio un’impresa nel doppio senso, aziendale ma anche cavalleresca, impresa nel senso che abbiamo una missione: costruire uno spettacolo che lasci il segno, una sensazione che noi stessi non sappiamo bene cos’è».
È anche un work in progress?
«Io dovrei avere la visione completa, tutti gli altri mi forniscono una parte della scrittura complessiva, però poi questa impalcatura deve scomparire, la gente non deve farsi domande su come è costruito, deve lasciarsi andare, entrare in uno stato di coscienza alterata se possibile. È un’azienda, sì, in cui lavorano centinaia di persone: luci, effetti speciali, progettazione, allenatori, trainer, alimentazione, trasporti, è una macchina grossa. Sto dimostrando che è possibile, il tour sta in piedi da un punto di vista artistico, economico, la gente esce appagata, è possibile anche in questo momento storico. Non senza un lavoro incessante. Per carità non faccio il minatore, faccio un lavoro bellissimo e ogni mattina ringrazio il cielo di poterlo fare, però sia chiaro è un lavoro, fatto di dettagli estremi, di estrema cura. Io non sono come Adele, lì apri il microfono e boom, basta quello. Ma c’è un altro linguaggio che non va per sottrazione ma per addizione, fino a creare una specie di cosmo, io creo un caos dal quale scaturisce un’armonia».
Oggi è vero che si tende a descrivere troppo tutto attraverso dei numeri, ma è vero che i numeri di Jovanotti nel 2015 sono impressionanti. Cifre da record da tutti i punti di vista, tour, disco, download…
«In realtà adesso la cosa che mi preme di più e pensare cosa succederà dopo, in futuro, i risultati belli non mi danno mai una sensazione di sazietà, anzi mi danno una sensazione di inadeguatezza e un po’ di voglia di rilanciare, di cambiare tutto. Ora sicuramente dobbiamo festeggiare, con me stesso, con i miei, dicendo: abbiamo fatto un lavoro pazzesco, ma l’abbiamo fatto da anni raccogliendo una semina che dura almeno da dieci anni. Questo mi dà anche curiosità, sento di avere a disposizione una potenza di fuoco, c’è grande attenzione alle cose che faccio, ed è un grande stimolo».
Per nuove sfide?
«Una potrebbe essere quella di uscire da una logica generazionale, o anche quella di non consolare necessariamente il mio pubblico, confortarlo con lo stesso linguaggio. La sfida è progettare il futuro, capire cosa mi piace, dov’è la modernità nel mio linguaggio, quanto posso spingere avanti o indietro, visto che oggi la musica è contemporaneità infinita: massimo dell’elettronica e poi voce e pianoforte, anche nel repertorio dello stesso artista. Il caos non mi ha mai fatto paura, il lusso della scelta lo vivo proprio come un lusso, e me lo godo tutto, non mi spaventa il futuro. Sarà un anno di sviluppo, di riposo, per vedere cosa c’è nel futuro. La vedo la gente che ho di fronte ogni sera: c’è una delega, c’è fiducia, e io questa fiducia me la giocherò, ma per cambiare».