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 2016  gennaio 08 Venerdì calendario

A 500 anni dall’Utopia di More, la matrice delle costituzioni moderne

Thomas More creò “Utopia” cinquecento anni fa, nel 1516, in età matura e mentre si stava avviando a una brillante carriera politica che lo avrebbe portato a essere cancelliere di Enrico VIII. Il divorzio del re segnò la rottura dell’Inghilterra con la Chiesa di Roma e la fine della carriera e della vita del cardinale cattolico More, giustiziato il 6 luglio del 1535 (santificato da Pio XI nel 1935 e proclamato da Giovanni Paolo II protettore dei politici). “Utopia” é il capolavoro di questo grande umanista cristiano che Erasmo da Rotterdam descrisse come un credente ansioso di una fede verace e nemica di ogni superstizione, e che i bolscevichi immortalarono in un monumento posto davanti al Cremlino accanto a quello di Tommaso Campanella. Prima opera che porta questo nome, Utopia non é un libro semplice e sulle intenzioni del suo autore (che riconobbe la schiavitù e la subordinazione delle donne) gli studiosi non si trovano ancora d’accordo. Certamente, si trattò di un progetto che rifletteva le condizioni storiche dell’Inghilterra del tempo, afflitta dall’intolleranza religiosa (alle soglie della Riforma protestante) ma prima ancora dalla miseria delle classi povere e dall’opulenza di un’oligarchia abituata al privilegio di rapina.
Utopia non disegna però un sogno d’evasione nella terra dell’abbondanza. Racconta una società in sintonia con l’etica dei moderni, dove il lavoro è onorato, anche se nessuno è costretto alla stessa mansione per tutta la vita; dove si rispetta un tempo lavorativo di sei ore giornaliere affinché ognuno abbia il tempo dello svago e possa coltivare rapporti affettivi e sociali, l’arte e la scienza. In Utopia, la legge è uguale per tutti; la giustizia segue un dosaggio di oneri e di onori misurato secondo il servizio reso alla società, non l’appartenenza a un ceto o una classe; la vita pubblica aborre la retorica perché menzognera; e infine, il popolo non è una platea addomesticata da retori e da legulei. Nelle città federate di Utopia si promuovono la cultura, la letteratura e l’arte; sono abolite le sofisticherie teologiche e metafisiche, si educano i giovani secondo i principi del metodo sperimentale, il più adatto a un popolo che si autogoverna e ha il potere ultimo delle decisioni; i cittadini delegano l’amministrazione a magistrati che sono scrupolosamente controllati; le amicizie e le parentele sono bandite da ogni relazione pubblica.
L’utopia non è propriamente un luogo di evasione dal presente, ma un esercizio di immaginazione che denuncia il disordine della società esistente e mostra i principi a partire dai quali è possibile correggerlo. L’isola che non c’è di More illustra le norme del ben vivere collettivo e privato secondo un ideale che appartiene alla natura umana come un dover essere che la ragione indica – non un assurdo, non un disegno che sta fuori della nostra portata. L’utopia è, in questo senso, la matrice delle costituzioni moderne, delle leggi che i popoli scrivono nella loro fase creatrice, quando emergono da grandi sofferenze e sanno ragionare per grandi visioni, pensando non a quel che conviene a loro in quel momento e alla loro generazione, ma a quel che farà dignitoso il paese per le generazioni a venire. Insieme al cinquecentesimo anniversario dell’Utopia di More, nel 2016 si celebrerà anche il settantesimo anniversario della nostra Repubblica, la matrice utopica della nostra società. L’Assemblea che si insediò dopo il 2 giugno 1946 segnò il carattere della nostra Costituzione, nata dalla lotta partigiana e guidata da partiti politici, da cittadini, cioè, con diverse idee politiche e capaci di convenire pur dissentendo. La capacità di immaginare il futuro è innervata nel presente, come un punto di riferimento senza il quale non ci è possibile fare scelte. L’utopia è una creazione esemplare di questa capacità. Un luogo che non c’è del quale non si può fare a meno.