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 2016  gennaio 08 Venerdì calendario

I fratelli Bundy e quei quattro ribelli che rivendicano la terra che fu strappata agli indiani. Succede in Oregon

Lungo il Sentiero dell’Oregon, scavato dal sangue di migliaia di nativi indiani e dalle ruote dei carri coperti dei pionieri in viaggio verso il Pacifico, ricomincia la guerra dei 200 anni tra il corvo bianco e il corvo rosso per il controllo delle terre del Lontano West.
Da sei giorni arroccati nella capanna dei Ranger che dovrebbero pattugliare i 770 chilometri quadrati del Parco Nazionale di Malheur nell’Oregon settentrionale, un manipolo di fanatici in tuta mimetica, cappellone da John Wayne nel Grinta e fucili automatici veri stanno giocando ai cowboy e agli indiani, decisi – dicono – «a morire per difendere la libertà». Intesa come libertà di appropriarsi di un immenso territorio che a loro non è mai appartenuto, strappato dagli invasori europei prima ai nativi Paiute e Shoshone che ci avevano vissuto per almeno seimila anni e poi assegnato al governo federale come parco nazionale e in parte riserva indiana.
Quel governo di Washington che ancora possiede legalmente più della metà dei territori dell’Oregon, del Montana, del Wyoming, dello Utah e del Nevada.
Nella baracca occupata dai miliziani e circondata per ora soltanto da infreddoliti cameramen nella speranza di una sparatoria e da reporter intirizziti nel gelo dell’altopiano sulle rive del lago Malheur che in queste ore di gennaio mai supera gli zero gradi, due fratelli travestiti da guerriglieri con cappellone troppo nuovo per essere vero, Ammon e Ryan Bundy guidano una mezza dozzina di desperados nella ribellione contro “la tirannia” di Washington. E contro i Paiute che, dal 1868, dovrebbero avere il diritto sancito da un trattato di pescare, cacciare e raccogliere erbe medicinali e prodotti della terra, protetti dal governo.
Ma nonostante la scenografia tra la Sporca Dozzina, i Berretti Verdi i cowboy gay di Brokeback Mountain e la costumistica da western pre-Sergio Leone, la battaglia di Lake Malheur, il “lago sfortuna” come fu battezzato dai primi cacciatori francesi che nel naufragio della loro canoa persero un anno intero di pellicce, è finora soltanto una grottesca sceneggiata.
È un’altra rappresentazione, probabilmente destinata a una fine non violenta se l’Fbi e il governo di Washington avranno la pazienza di lasciarli congelare nelfreezer naturale dell’altopiano, di una guerra vera e mai davvero finita, nonostante trattati firmati e stracciati con l’inchiostro ancora umido: la guerra triangolare fra allevatori, nativi indifesi e governo incaricato di proteggere, insieme con i loro, i diritti della nazione alle terre ancora vergini del Far West.
I due capibanda, i fratelli Bundy, uno dei quali sfida l’inverno con i suoi 72 anni, e i loro quattro seguaci, compreso un ex marine, John Ritzeheimer che ha lasciato su Facebook un melodrammatico addio alla famiglia, sono infatti, come tutti loro che li hanno seguiti nell’avventura, non “Oregonians” veri, ma professionisti della ribellione, nomadi che formano una compagnia di giro che recita nell’immenso palcoscenico del West ancora semivuoti la tragicommeddia del pionieri, per la gioia di telegiornali e annoiati reporter locali. Il “Parco Nazionale di Malheur” è infatti dal 1934 un tranquillo falsopiano bagnato da acquitrini e affluenti dello Snake River, santuario per 538 specie di uccelli che i mitissimi naturalisti e bird watchers frequentano nei mesi dell’estate e della migrazioni, rischiando non l’agguato di Ombre Rosse ma l’aggressione dalle fameliche zanzare del West o dai molti serpenti a sonagli che escono dal letargo.
Il padre dei Bundy aveva già organizzato uno spettacolo simile nel vicino Nevada nel 2014, di nuovo sfidando il «regime federale» per rivendicare il proprio diritto a far pascolare bovini nelle avarissime pasture del deserto e a scavare miniere e si era preso dal potente senatore dello Stato, Hary Reid l’appellativo di «terrorista». Era stato un altro assedio, completo di cappelloni da «5 galloni» come si chiamano nel Texas, e di giuramenti a battersi a costo della vita per affermare il diritto dell’uomo, naturalmente bianco, sulla terra nordamericano, era finito quando le autorità federali li avevano semplicemente ignorati, lasciandoli a rosolare nel sole.
Anche nell’Oregon i locali, che i Bundy aveva sperato di sollevare in una sommossa indipendentista, non se li sono filati affatto. Mentre i Paiute, per bocca di una capo villaggio, Henrica Rodriquez, protestavano per l’ennesima invasione dell’insaziabile “corvo bianco”, i rari allevatori e rancher della zona che ha una popolazione di 7mila abitanti in una contea di 24 mila chilometri quadrati, più grande della Lombardia, hanno appeso cartelli per invitarli a “Go Home”, a tornarsene a casa, E a non «spargere sangue» sulla loro terra.
Anche i due miliziani anti-governativi dell’Oregon, Dwight Hammond e il figlio Steven, arrestati, incarcerati condannati a tre anni e poi ricondannati a due anni in più di quelli scontati con l’imputazione di attività terroristica per avere dato fuoco a boschi, che i Bundy erano andati a difendere con le armi, si sono pacificamente presentati al penitenziario, senza fare resistenza.
Nell’ormai lunga storia di queste rivolte di milizie invariabilmente razziste, gonfie di collera contro i «negri», i «rossi», nel senso della carnagione, degli «stranieri», come se loro fossero indigeni, si immaginano come interpreti di un mito che sembra romantico ed è soltanto da squilibrati. La guerra dei Bundy, gente che i Texani e i veri cowboy superstiti deriderebbero come «sbruffoni tutto cappello e niente mandria» è dunque una scaramuccia che potrebbe far sorridere. Se non ricordasse, sotto quei costumi da guerrieri e i cappelloni, dietro quell’arsenale truculento e micidiale, il fiume di lacrime che ha bagnato quelle terre. E ancora sgorga dalla canna dei troppi fucili nel West.