8 gennaio 2016
In morte di Valerio Zanone
Paolo Franchi per il Corriere della Sera
In un Paese dove liberali si professano un po’ tutti, Valerio Zanone liberale lo è stato davvero. Non solo perché del Pli fu per una dozzina d’anni il segretario, dopo aver raccolto, nel 1976, l’eredità di Giovanni Malagodi, che aveva a lungo criticato da sinistra. E neppure soltanto perché il Pli lo rappresentò più volte al governo, come ministro prima di Bettino Craxi, poi di Giovanni Goria e, infine, di Ciriaco De Mita.
Tutto questo conta, eccome, nella biografia di Zanone politico. Il fatto è, però, che in un tempo lontano in cui i rapporti tra politica e cultura erano infinitamente più stretti di quanto si possa oggi sospettare, Zanone, che pure si definiva «un arnese di partito», fu anche, e forse prima di tutto, un intellettuale. Di quelli seri, rigorosi, dotati, quando queste erano considerate virtù, di un forte senso del limite, dell’ironia e dell’autoironia, appassionati sì alla politica (retrobottega e spogliatoi compresi), ma per nulla inclini a far commercio delle proprie idee per buttarle in scena nelle forme fragorose e assieme accattivanti che la politica richiede. Avesse anche pensato di farlo, oltretutto, non ne sarebbe stato capace. Già quando, dopo le elezioni del 1976, arrivò a Montecitorio e poi alla guida del Pli, così apparve a noi, allora giovani cronisti politici, che alle cose del suo partito, universalmente considerato in via di estinzione, non eravamo davvero troppo attenti: non faceva notizia, Zanone, e non offriva succulenti retroscena, ma sul fatto che fosse persona colta e civile, e che il suo liberalismo senza aggettivi fosse prima di tutto un abito mentale, non c’erano dubbi.
Con il trascorrere degli anni, non c’è stato motivo di cambiare idea. Quando anche il Pli, di cui era diventato presidente dopo aver lasciato la segreteria a Renato Altissimo, fu coinvolto negli scandali di Tangentopoli, cercò di convogliarne le energie residue nel campo referendario di Mario Segni, nella speranza che la decomposizione dei partiti tradizionali aprisse la strada a una maggioranza liberaldemocratica. In questo spirito, fu, nel 1995, tra i fondatori dell’Ulivo di Romano Prodi e, nel 2001, della Margherita che, cinque anni dopo, lo riportò per l’ultima volta in Parlamento.
Nutrì molti dubbi sull’effettivo tasso di liberalismo del centrosinistra, ma pensò che fosse possibile piantarvi dei semi liberali, e si comportò di conseguenza. Mai pensò invece che per il liberalismo ci fosse spazio nel centrodestra, nonostante Silvio Berlusconi si fosse proclamato, sin dagli esordi, campione della «rivoluzione liberale». Quando, pochi mesi fa, Berlusconi si offrì di salvare la sua amatissima Fondazione Einaudi, a patto di nominare un nuovo consiglio d’amministrazione, Zanone, assieme all’altro presidente onorario, Roberto Einaudi, cercò di opporsi: meglio chiudere con dignità per mancanza di soldi che finire nell’orbita di un partito, per fargli da pensatoio o da scuola quadri o da fiore all’occhiello. Il concetto, in fondo, lo aveva già esposto tre anni fa, quando l’offerta berlusconiana non c’era ancora, nelle prime righe di un volume dedicato al cinquantesimo della Fondazione: «Biblioteche ed archivi non si prestano ai traslochi. In cinquant’anni la Fondazione Einaudi di Roma ne ha conosciuto soltanto uno, da Piazza in Lucina a Largo dei Fiorentini». Ragionavano così, in modo innegabilmente un po’ rétro, certi intellettuali politici di una volta. Forse è anche per questo che, quando se ne vanno, alcuni avvertono, per un attimo, un vago senso di vuoto.
Se non fosse stato per lui e per il successo elettorale personale ottenuto nella Circoscrizione Torino-Novara-Vercelli, il Pli sarebbe scomparso alle Politiche del 1976. Invece, Valerio Zanone, successore ed erede di Giovanni Malagodi alla guida del partito, spentosi a 79 anni ieri a Roma dopo una lunga malattia, «un politico galantuomo» come lo definisce l’antico avversario Diego Novelli, riuscì a far raggiungere il quorum al partito al quale aveva dedicato la vita permettendo al Pli di sopravvivere.
Volto ed esponente di primo piano di un’epoca politica dominata dal Pentapartito, Zanone si è sempre diviso fra la sua Torino dove viveva con la moglie Maria Pia dalla quale ha avuto tre figlie, e Roma. Il mezzo secolo di politica di Zanone ha attraversato la storia d’Italia durante la prima e la seconda Repubblica. È stato consigliere regionale del Piemonte dal 1970. Da segretario del Pli affrontò gli anni della lotta al terrorismo, dell’alleanza dei liberali con Craxi. È stato ministro tra l’85 e l’89 nei governi presieduti da Craxi, De Mita e Goria. Nel 1990 è stato eletto sindaco di Torino, incarico che ha lasciato nel 1992 per tornare in Parlamento. Una decisione che provocò parecchi malumori in città, ma Zanone tirò diritto dopo essersi consultato con il grande amico Enrico Salza, uno degli artefici della fusione fra il San Paolo e Intesa, il presidente degli industriali dell’epoca, Bruno Rambaudi, e l’Avvocato Agnelli che il Pci aveva affiancato alla sua immagine nei manifesti elettorali con lo slogan: «Il candidato sindaco è quello a sinistra».
Zanone dal 1976 è stato deputato per 18 anni e cinque legislature fino. Dopo 12 anni fuori dall’impegno parlamentare ma non dalla politica, è poi stato senatore della Margherita dal 2006 al 2008. Il presidente della Repubblica Mattarella e il premier Renzi hanno ricordato «l’alto senso dello Stato, la rettitudine, la lungimiranza e il peculiare tratto personale, improntato a garbo e umanità». Zanone è stato un liberaldemocratico della tradizione piemontese. Malgrado la malattia, l’ultima sua battaglia, insieme a Roberto Einaudi, è stata per evitare che la Fondazione Einaudi di Roma, fondata da Malagodi nel 1962 e di cui è stato per anni presidente, finisse sotto il controllo di Berlusconi e di Forza Italia. Ha chiesto di essere ricordato sulla lapide al cimitero monumentale di Torino con una sola parola: «Liberale».