Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2015
L’economia indiana va, il problema è la politica
Il 22 giugno del 2005 la sudcoreana Posco sigla un accordo con il governo dell’Orissa per la costruzione di un polo siderurgico da 12 miliardi di dollari. Il 16 luglio del 2015, la multinazionale dell’acciaio si arrende alla burocrazia indiana e mette in stand by il progetto, senza nemmeno essere riuscita a posare la “prima pietra”. In quei dieci anni, Posco ha dovuto fronteggiare proteste ambientaliste, sequestri lampo dei manager, battaglie legali per l’acquisizione dei terreni, trafile interminabili per licenze e permessi. Nel frattempo, a New Delhi si sono succeduti tre governi, due guidati dal Congresso e uno dal Partito del popolo (Bjp) dell’attuale premier Narendra Modi, ma i nodi che hanno fatto sfumare uno dei più grandi investimenti esteri del Paese sono tutti da sciogliere.
È il male dell’India: la cattiva politica vince sulla buona economia, ieri come oggi che il Pil è visto in crescita del 7-7,5% dalle statistiche ufficiali. Sono centinaia i progetti di investimento dispersi tra uffici dei ministeri e aule di tribunale: equivalgono a migliaia di posti di lavoro a portata di mano ma irraggiungibili, a una modernizzazione promessa ma non mantenuta, al 5% del Pil, secondo una stima di Morgan Stanley del 2014.
Mentre gli analisti ancora cercano di capire quale sia il vero tasso di crescita dell’India, dopo la controversa revisione di inizio anno, nessuno però la considera più un Paese fragile. Grazie anche al calo del prezzo del petrolio e alla credibilità della Banca centrale (Rbi), i fondamentali mettono l’economia al riparo da shock esterni. Almeno in questa fase. E così, la temuta normalizzazione della politica monetaria statunitense non ha destabilizzato moneta e indici di Borsa, come invece era avvenuto tra maggio e agosto del 2013, quando al solo annuncio di una stretta da parte della Fed, la rupia aveva perso un quarto del proprio valore e i mercati erano colati a picco.
Molto è cambiato da allora, oltre al tasso di crescita, miracolosamente balzato sopra al 7%. L’indice dei prezzi al consumo si è quasi dimezzato, scendendo attorno al 5%, grazie alle politiche della Rbi, che sotto la guida di Raghuram Rajan si è concentrata sull’inflazione. E grazie al calo del petrolio. Con il greggio ai minimi, il governo Modi ha potuto tagliare i generosi sussidi pubblici sui carburanti. Le risorse liberate sono state in parte investite nelle infrastrutture di cui il Paese ha disperatamente bisogno. Il resto ha permesso di consolidare i conti pubblici: il risultato è un deficit di bilancio in discesa sotto il 4%. Non è solo il Governo ad avere maggiori margini di manovra per sostenere l’economia. Le riserve della Rbi superano i 350 miliardi di dollari, dai 275 del settembre 2013. Gli investimenti diretti esteri nella prima metà dell’anno fiscale in corso sono saliti a 17 miliardi di dollari, dai quasi 16 dello stesso periodo del 2014-15. Il deficit delle partite correnti, che nel 2012 aveva raggiunto il 4,8% del Pil, quest’anno dovrebbe restare sotto l’1,5%.
Se tra gli emergenti New Delhi oggi brilla, è però in gran parte di luce riflessa. Il miglioramento del saldo commerciale non arriva, per esempio, dal rinnovato slancio delle sue imprese sui mercati esteri. Anzi. Malgrado la debolezza della rupia, le esportazioni a novembre hanno messo in fila il 12° mese consecutivo di flessione, con un calo del 24,4% su base annua. La caduta ha addirittura mostrato un’accelerazione rispetto al mese precedente, quando era stata del 17,5%. Come le altre economie emergenti, anche quella indiana risente della debolezza della domanda mondiale. La crescita resta così trainata da spesa pubblica e consumi domestici.
Il saldo commerciale, come l’inflazione, beneficia della bassa quotazione del greggio: l’import di petrolio è infatti sceso a novembre del 45% in valore, trainando il calo complessivo delle importazioni (-30,2% su base annua). L’India acquista dall’estero l’80% del greggio che brucia. Qualora nell’anno fiscale 2015-16 il prezzo medio si attestasse a 50 dollari al barile, il Pil ne riceverebbe un bonus di 2,2 punti percentuali.
A differenza di altri Paesi, l’India non soffre del “mal di Cina”. L’export verso l’ingombrante vicino vale solo il 10% delle sue esportazioni (quanto a investimenti diretti, negli ultimi 15 anni da Pechino sono arrivati meno capitali che da Polonia o Malesia) e il deficit commerciale è stato di 36 miliardi di dollari nel 2014. Un deprezzamento dello yuan potrebbe migliorare ancora i conti con l’estero. Al tempo stesso, però, potrebbe spingere ancor di più l’import di elettronica dalla Cina, che già invade i negozi indiani di telefonini, tagliando le gambe ai produttori locali. Se l’economia in qualche modo avanza, la politica al contrario resta al palo. Il Governo ha facilitato gli investimenti esteri in una serie di settori e varato alcune semplificazioni marginali, ma si è arenato sulle grandi riforme, incapace di superare l’ostruzionismo del partito del Congresso, che, pur ridotto ai minimi termini, riesce a fare le barricate in Parlamento. Restano così sulla carta le promesse di semplificare l’acquisizione dei terreni o di snellire le intricate norme sul lavoro, come pure quella di unificare i 29 Stati e 7 territori della Confederazione in un solo mercato, attraverso l’introduzione di un’imposta nazionale sul valore aggiunto. Da sola, questa riforma, spazzando via le “dogane interne”, potrebbe regalare 1,5 punti di Pil all’India.
Sullo sfondo resta un macigno grande come gli asset in sofferenza nei bilanci delle banche, che secondo Fitch raggiungeranno il 13% del totale entro marzo 2016 e avrebbero bisogno di 35 miliardi di dollari per essere risanati (dopo i dieci già stanziati tra il 2011 e il 2014 dal Governo). Fa da corollario il debito delle aziende, l’anno scorso pari al 55% del Pil: una doppia zavorra sugli investimenti privati, scesi ad appena il 5,2% del Pil dal già basso 7% del 2012. La Banca centrale sta cercando di affrontare il problema, ma anche in questo caso rischia di essere lasciata sola dalla politica.