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 2015  dicembre 30 Mercoledì calendario

L’austerità saudita. Dopo il crollo del petrolio anche Riad è costretta a una spending review

Il 2016 non sarà un anno facile per l’Arabia Saudita. Il più grande esportatore al mondo di petrolio è costretto a varare misure di austerità. Succede in un momento delicato, mentre Riad ha una serie di sfide aperte per la sicurezza e il predominio regionale: innanzitutto la battaglia contro l’Iran sciita, anche attraverso le guerre in Yemen e in Siria; l’Isis alle porte; il sostegno al governo del Cairo. Sfide che richiedono il dispiegamento di enormi risorse. 
«Con l’aiuto di Allah, la nostra economia supererà le sfide», ha annunciato l’altro ieri in tv il re Salman bin Abdulaziz Al Saud, salito al trono alla morte del fratello Abdullah. Undici mesi dopo aver preso il potere, a 79 anni, si trova a gestire una nuova era. Il re ha presentato un bilancio 2016 che prevede un deficit fino a 326 miliardi di riyal (87 miliardi di dollari, poco meno di 80 miliardi di euro). E ha annunciato tagli alle spese, una riforma dei sussidi (quelli energetici costano il 13% del Pil) e «privatizzazioni in una varietà di settori». Il primo decreto reale riguarda la benzina, che costerà il 50% in più (comunque solo 24 cent al litro), le bollette della luce (più salate per i ricchi) e dell’acqua (per tutti). Misure ritenute necessarie perché il Paese è in deficit da due anni. Nel 2015 il disavanzo di bilancio ha toccato il 15-16% del Pil. Livelli greci. 
La ragione è il prolungato crollo del prezzo del petrolio, da cui dipende l’economia saudita: la scorsa settimana il Brent è arrivato ai minimi da 11 anni. È il risultato della politica della stessa Riad che, a fronte di un calo dei prezzi nel 2014 dovuto al boom di petrolio Usa prodotto da scisto, non ha risposto tagliando la propria produzione ma pompando volumi record di greggio sul mercato (per soffocare i concorrenti americani con costi di produzione più alti). 
L’impatto del crollo dei prezzi è stato ammorbidito dalle riserve valutarie pari a 640 miliardi di dollari. L’anno scorso Riad ha attinto a 100 di quei miliardi, sia per finanziare da marzo la guerra contro i ribelli sciiti houthi in Yemen (e per nuovi armamenti) che per pagare «i bonus». Re Salman, infatti, appena salito al trono, ha concesso due mesi in più di stipendio a tutti i dipendenti pubblici e uno in più a quelli del ministero della Difesa e dell’esercito. 
È la prima volta che Riad sceglie l’austerità. A mettere a punto le nuove riforme economiche è stato il prediletto figlio trentenne del re, Mohammed bin Salman, già nominato vice erede al trono nonché ministro della Difesa. Il suo staff definisce la crisi un’occasione per correggere gli sprechi. Spesso fotografato nella «war room», è lui che gestisce la guerra in Yemen. Chiaro, la Difesa sarà un’area nella quale il governo non prevede tagli: 57 miliardi di dollari per il 2016. Ma basteranno? Questo mese il principe Mohammed ha annunciato la formazione di una coalizione antiterrorismo di 34 Paesi, uno sforzo in chiave anti Isis e Al Qaeda (ma anche anti Iran), oltre che un modo per far tacere le accuse di non fermare i finanziamenti a gruppi jihadisti. Il principe poi è appena stato al Cairo, dove ha promesso 8 miliardi di investimenti in cinque anni; a marzo Riad promise 4 miliardi di aiuti. E se la guerra in Yemen, che costa 6 miliardi al mese, non finisse con i colloqui di pace di gennaio? E chi sosterrà i costi della ricostruzione? 
L’austerità significa anche che Riad intende tenere i prezzi del greggio bassi. È una scommessa. «L’Arabia Saudita può tollerare questa situazione per altri tre-quattro anni, grazie alle riserve valutarie e ricorrendo al mercato obbligazionario – spiega il docente di Princeton Bernard Haykel —. L’altra scelta non è migliore: se cede ora quote sul mercato del greggio, verranno subito occupate da altri». Primo tra tutti l’odiato Iran, che con la fine delle sanzioni occidentali nel 2016 potrebbe iniettare mezzo milione di barili al giorno sul mercato, ma anche l’America, la Russia e l’Iraq (sciita). Se invece i prezzi restano sotto ai 40 dollari al barile, a pagarne il prezzo più alto potrebbero essere gli americani. 
È una scommessa anche perché i tagli ai sussidi potrebbero provocare tensioni dentro il Regno, dove ogni ribellione viene sedata con il bastone ma anche con la carota del benessere e della stabilità. Una certa preoccupazione si registra tra i privati, settore cruciale per garantire impiego ai giovani. Una certa opposizione si registra nella corte reale. La scommessa è aperta.