la Repubblica, 23 dicembre 2015
Ritratto di Rocco Schirripa, il panettiere-narcotrafficante che ha ucciso il giudice Caccia
«Ti dico la verità, sto dormendo male», dice. E la colpa è delle «voci che camminano». E hanno camminato così tanto dentro i sentieri dell’omertà sino ad arrivare al “nome in più”, il suo. Rocco Schirripa, detto “Barca”, 62 anni, è stato arrestato all’alba di ieri mattina. Calvo, panciuto, cascante, così platealmente diverso dal giovane riccioluto, magro, duro che venne visto, trentadue anni fa, scendere da una 128 e uccidere a sangue freddo Bruno Caccia, il procuratore capo di Torino, già a terra, già ferito.“Barca” se n’è stato zitto, decennio dopo decennio: credeva fosse sufficiente. Faceva il panettiere e il narcotrafficante, tutto uguale, mentre «l’elettronica – come si legge in un’altra intercettazione – ha fatto passi da gigante», e l’ha agganciato. Da una parte c’è lui, “trequartino” della ‘ndrangheta, vale a dire una sorta di top manager calibro 38 della potente cosca Belfiore. E dall’altra, questa volta, la volta buona, gli investigatori della Mobile di Torino, coordinati dal procuratore aggiunto antimafia di Milano, Ilda Boccassini, e dal suo ufficio.Trentadue anni dopo la notte sanguinosa del 26 giugno del 1983, i destini dei cacciatori e della preda si sono incontrati. Ma non si può capire bene come sia potuto succedere se non si parte dalla vita quotidiana di Rocco Schirripa detto “Barca”, l’uomo che non parlava mai. La sua vita da gangster è andata avanti a testa bassa. Tran tran. Sia quando, nel luglio del 1983, le morenti Brigate Rosse smentirono, una volta per tutte, la pista fasulla del terrorismo rosso per l’omicidio Caccia. Sia quando, l’anno dopo, il giudice istruttore Giancarlo Caselli lo incriminava per una serie di rapine.Il silenzioso Schirripa era in carcere quando ha visto il suo grande capo e complice in quella notte di sangue, nonché padrino di battesimo di sua figlia, Mimmo Belfiore, venire ingoiato dalla cella, accusato dell’omicidio del procuratore capo Caccia dai collaboratori di giustizia dei clan catanesi, e poi condannato a Milano all’ergastolo dalla Corte d’assise nel giugno del 1989. E lui, “Barca”?Sempre zitto, con una sola eccezione, di cui si fida al mille e uno per mille», si becca altri dieci anni e passa per narcotraffico nel Duemila. Nel giardino della villetta ha un manichino vestito con il gessato dei boss, si sa che numerose inchieste di ‘ndrangheta lo sfiorano e lo coinvolgono: sino a sei mesi fa, quando un gip a Torino rifiuta il suo ennesimo arresto per l’inchiesta Hunters. Ma, in quell’estate, sta succedendo quel qualcosa d’imprevedibile che perderà “Barca”. Il suo boss, Mimmo Belfiore, è malato: molto malato. Viene scarcerato e (11 giugno) torna a casa, dove può ricevere riceve le visite domenicali di suo cognato, Placido Barresi, altro pezzo da 90, semilibero.In quel periodo l’avvocato della famiglia Caccia, Fabio Repici, sta proponendo, per far riaprire il caso, una pista alternativa: responsabile sarebbe a suo dire Cosa Nostra, con uno dei mandanti addirittura protetto da un magistrato di Milano, Francesco Di Maggio. È un’ipotesi che non sta né in cielo né in terra e fa indignare chiunque conosca il curriculum di Di Maggio e la storia recente dell’Italia criminale. Ma tant’è.Nel frattempo, tutti i telefoni della cosca (6 agosto) vengono messi sotto intercettazione grazie – «L’elettronica ha fatto passi da gigante» – a un virus che, inserito nei tablet e negli smartphone, li rende simili a megafoni. La presunta pista dell’avvocato Repici in casa Belfiore suscita interesse zero, finché si registra un vero colpo di genio dei detective. Scrivono loro una lettera anonima. Fotocopiano un articolo della Stampa e aggiungono: «Omicidio Caccia: se parlo andate tutti alle Vallette. Esecutori Domenico Belfiore Rocco Barca Schirripa. Mandanti Placido Barresi Giuseppe Belfiore Sasà Belfiore». Imbustano, mandano a tutti i boss e aspettano.L’effetto è da paura. La trappola riesce e la “dottoressa”, come tutti chiamano Ilda Boccassini, ascolta i boss che adesso si agitano per quel “Ciuciuciuciu”. Anche Rocco Schirripa prende malissimo le «voci che camminano». Innanzitutto, stava in Calabria ed è sua moglie Eleonora ad aprire la busta. Anche se è un potente “trequartino”, subisce le ire casalinghe: la signora «ha fatto un caos, un casino». Quindi, seguace del suo credo, il mutismo, “Barca” non va nemmeno a cercare i capi: sono loro, sospettosi, guardinghi, ma pedinati e registrati dai detective, che vanno a cercarlo. E Rocco lascia malvolentieri la sua panetteria in piazza Campanella a Torino per la panetteria di Placido Barresi, assetato di notizie, la Gi&Gi in largo Montebello: «Il nome tuo chi lo conosceva? Noi dobbiamo individuare questo (...) hai parlato con qualcuno, Rocco?».La risposta, captata dal virus elettronico, è rivelatrice del tasso d’inquietudine e lo incastra: «Non scherziamo minimamente (...) non ho parlato proprio con nessuno nessuno nessuno, no! E sto dormendo male». I giorni passano tra i sospetti, ma dopo le “inchieste interne” il verdetto dei boss diventa categorico: caro Rocco, «ti sei fatto trent’anni tranquillo, fattene altri trenta tranquillo».Credevano che omertà e clan, come un tempo, li avrebbero protetti: il brusco risveglio sull’asse Milano-Torino rivela come l’epoca dei muti sia inesorabilmente al tramonto.