la Repubblica, 4 dicembre 2015
L’africano per strada a Milano si presenta così: «Sono un ragazzo cristiano.Vuoi aiutare un ragazzo cristiano?»
L’esercito dei questuanti, nelle grandi città, è in costante aumento. La concorrenza è spietata. Come si direbbe in politica, per farsi notare serve “narrazione”. L’africano che mi ferma per strada a Milano lo sa, e si presenta così: «Sono un ragazzo cristiano.Vuoi aiutare un ragazzo cristiano?». Lo spirito dei tempi aleggia, implacabile e sgradevole, nella breve introduzione che immagino voglia suonare rassicurante. Ma non lo è per niente. Ho vissuto parecchie vite, ormai, in diverse città e con molteplici umori: ma nessuno mi aveva mai fermato per strada presentando le sue credenziali religiose. Mi sento costretto – per autodifesa – a presentargli le mie. «Chi ti dice che sia cristiano anche io?». Mi guarda interdetto. Sorride. Non sa cosa dire. Non so cosa dire nemmeno io. Non vorrei essergli sembrato ostile: non era quella l’intenzione. Ma non accetto che qualcuno creda che io sia disposto a prestargli o non prestargli attenzione a seconda della sua religione. Imbarazzati entrambi, per trarmi di impaccio gli allungo qualche moneta e mi allontano, scontento di me e scontento di lui. Ho cercato di immaginare l’origine e gli scopi di una così specifica presentazione. Superare la diffidenza di chi, vedendo la sua pelle scura, poteva immaginarlo “non cristiano”? Favorire, rispetto ai questuanti generici, una complicità “di schieramento”, fai la carità a chi ti è più prossimo? Ma il prossimo – proprio per chi è cristiano – non è rintracciabile ovunque, e in chiunque? E la mia risposta istintiva – disconoscere quella promiscuità religiosa non richiesta, e soprattutto non necessaria – non gli sarà sembrata un puro pretesto per liberarmi di lui?