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 2015  dicembre 04 Venerdì calendario

Com’è il nuovo film di Spielberg sulla Guerra Fredda. La recensione di Mereghetti

Perché fare oggi un film su un cocciuto avvocato idealista e uno scambio di spie durante la Guerra fredda? Probabilmente per ricordare che anche nelle peggiori emergenze (a cavallo dei Sessanta, in molti credevano stesse per scoppiare una guerra atomica) ci sono dei principi cui non si può rinunciare se si vuole continuare a essere considerato «un brav’uomo», argomento oggi non troppo di moda e che per questo è giusto non dimenticare. E non è un caso che a dirigere un film così sia stato Steven Spielberg, l’ultimo con Clint Eastwood a poter essere considerato ancora un «regista classico». Ma fortunatamente con una visione un po’ meno manichea e darwiniana dell’ex Gunny. 
Argomenti, questi – il cinema «classico», la riflessione sulla Storia, il bisogno di aprire un dialogo col pubblico – che si legano e non vanno dimenticati per capire le scelte di Spielberg ma soprattutto il valore di questo Il ponte delle spie, 29esimo film di un regista eclettico e discontinuo ma sicuramente capace come pochi di assorbire lo spirito dei tempi e travasarlo nelle sue regie. A cominciare da quell’atmosfera un po’ plumbea e polverosa che la fotografia di Janusz Kaminski sparge su tutto, come a restituire l’atmosfera non proprio cristallina che si respirava durante la Guerra fredda. E che il film restituisce con pochi, ficcanti esempi: gli sguardi dei pendolari in metropolitana quando associano il volto dell’avvocato protagonista a quello della spia che sta difendendo per «ordine» del governo, le suggestioni apocalittiche che trasformano anche i bambini più piccoli in tanti incolpevoli paladini della Guerra fredda. 
Tutto inizia – nel film – con la cattura di Rudolf Abel, spia sovietica, a cui viene assegnato d’ufficio (anche per dimostrare che gli Usa non ignorano i diritti dei prigionieri) l’avvocato newyorkese James Donovan, il primo col volto impassibile di Mark Rylance, il secondo con quello più accattivante di Tom Hanks. Un incarico che Donovan prende con serietà, non certo per simpatie politiche ma per fedeltà a quel blocco di regole che ogni americano deve accettare per sentirsi tale, come spiega con forense lucidità all’agente Cia (Scott Shepherd) che lo invita invano a privilegiare il patriottismo sulla legalità.  
Donovan si conquista anche la stima di Abel, a cui evita la condanna a morte, ma soprattutto quella del governo se sarà proprio lui a dover condurre le trattative per liberare il pilota americano Gary Powers (Austin Stowell) abbattuto con l’aereo spia U-2 mentre sorvolava l’Unione Sovietica. Una trattativa complicata, perché non ufficiale, da svolgersi in una Berlino appena divisa dal Muro, dove Donovan vuole includere (contro il parere della Cia) anche la liberazione di uno studente di Yale (Will Rogers), in prigione a Berlino Est per amore di una ragazza. 
Una storia vera e complicata, dove entrano in gioco interessi politici e lotte diplomatiche, il pragmatismo degli uni e i sospetti degli altri e che Spielberg, a partire da una sceneggiatura di Matt Charman dove sono intervenuti i fratelli Coen, costruisce rimettendo al centro del suo cinema il potere della parola. Sono i dialoghi, le astuzie dialettiche, l’abilità espositiva a guidare Donovan (e lo spettatore) a trovare un bandolo dentro a una matassa complicatissima. Poteva essere un soggetto da trattare «alla Hitchcock» e invece Spielberg lo costruisce seguendo il filo della parola, l’unica capace di ridare senso a un mondo (e a un cinema) che sembra averlo perso dietro l’esplosione della violenza e della sua messa in scena. 
Spielberg sceglie una regia classica, dove la cinepresa esplora il mondo invece che subirne i suoi «trucchi» (come avviene sempre più spesso nel cinema dei supereroi e dei super effetti), affidando alla ragione il compito di tracciare la strada e alla dignità delle proprie scelte morali il compito di seguirla fino in fondo. Chi ricorda la cronaca di quegli anni (quello dell’U-2 fu uno scandalo che riempì i giornali) sa come finisce il film, agli altri basterà seguire l’occhio e la mano di Spielberg e del suo modo di fare cinema che non vuole chiudere gli occhi sulla realtà e che ci parla dell’oggi anche quando ricostruisce lo ieri.