Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 23 Lunedì calendario

La saga delle quattro banche e quei 700 milioni bruciati. Spiega Fubini: «Se il parlamento avesse fatto entrare in vigore l’attuazione delle norme europee di salvataggio a inizio anno, anziché la scorsa settimana, ci si sarebbe arrivati prima e sarebbe costato centinaia di milioni o alcuni miliardi in meno»

Se questa saga di quattro banche di provincia era un test sulla capacità del sistema Italia di funzionare in emergenza, il responso c’è: ha superato la prova una parte del Paese. Uomini della Banca d’Italia e di governo hanno lavorato con le figure di vertice dei maggiori istituti per chiudere una ferita della quale un’altra parte d’Italia è sembrata a tratti inconsapevole; ancora più spesso, riluttante a capirne la pericolosità e dunque a contribuire ai rimedi. 
C’è un episodio che riassume l’ambivalenza dello sforzo di mettere in sicurezza CaRiFe, Banca Marche, Etruria e Chieti. È del 27 ottobre. Salvatore Maccarone, presidente del Fondo interbancario di tutela dei depositi, parla al Senato in vista dei decreti per attuare in Italia le nuove regole europee sui dissesti bancari. Secondo la Reuters, invece di tranquillizzare, Maccarone pronuncia parole preoccupanti. Dice che non c’è accordo con la Commissione Ue sul salvataggio. Se continuasse così, aggiunge, «si segnerebbe in maniera tragica la vita di queste banche (…). Il danno non sarebbe solo per i depositanti ma ci sarebbe un colpo alla fiducia del sistema bancario, uno scenario di fuga dei depositi da alcuni istituti». 
Ora che le quattro banche sono al sicuro, è ancora più chiaro che frasi del genere potevano alimentare il panico dei correntisti o diffidenza gratuita verso altre banche. Maccarone ha smentito di aver detto quelle parole (il video dell’audizione le conferma) ma il punto è un altro: nei mesi che hanno portato al salvataggio, una parte d’Italia ha faticato a capire questa nuova fase nella quale la gestione delle banche non è più solo un problema nazionale. La Commissione e la Banca centrale europea sono le protagoniste. 
Sarà per questo, ma negli ultimi mesi l’Italia non è riuscita a far capire le sue ragioni a Bruxelles. Sono passati mesi preziosi mentre la condizione delle quattro banche si deteriorava, perché i debitori evitavano di ripagare istituti in dissesto e i correntisti si fidavano sempre meno. Nel frattempo il salvataggio è cambiato tre volte; solo l’impegno della Banca d’Italia, dei settori competenti del Tesoro e dei grandi banchieri privati ha permesso che alla fine andasse in porto. 
Il piano iniziale prevedeva l’uso del Fondo di garanzia – risorse private delle stesse banche – per ricapitalizzare le quattro aziende. Poiché la regia sarebbe stata della Banca d’Italia, la Commissione Ue ha deciso che era un aiuto di Stato; in base alle regole europee diventava possibile solo se gli obbligazionisti dei quattro istituti avessero accettato perdite per alleviare la situazione delle aziende e ridurre l’aiuto «di Stato» (virgolette d’obbligo). 
Per evitare che questo precedente trasmettesse uno choc all’intero sistema, si è passati al piano di riserva: veniva meno la regia della Banca d’Italia, dunque l’aiuto di Stato. Toccava a 208 istituti italiani versare volontariamente ciascuno la propria parte del capitale per il salvataggio. È qui che il sistema ha funzionato peggio. Le grandi banche hanno accettato per evitare che la liquidazione di quattro istituti scaricasse potenzialmente il contagio su altri. Molti dei piccoli banchieri invece hanno preferito passare la mano, non rischiare contestazioni dei soci e abbandonare i quattro istituti al loro destino. Erano convinti che la liquidità della Bce li avrebbe tenuti al riparo dall’onda d’urto. Ciascuno ha badato al proprio particolare. 
Così si è arrivati a ieri. Se il parlamento avesse fatto entrare in vigore l’attuazione delle norme europee di salvataggio a inizio anno, anziché la scorsa settimana, ci si sarebbe arrivati prima e sarebbe costato centinaia di milioni o alcuni miliardi in meno. I ritardi hanno lasciato quegli istituti a dissanguarsi e ora servirà più capitale. 
Alla fine i correntisti sono protetti in pieno, gli obbligazionisti ordinari anche. Azionisti e obbligazionisti subordinati, più a rischio, perdono oltre 700 milioni di euro. Presto qualcuno dirà che il governo punisce i risparmiatori, ma di fatto quelle somme non esistevano già più, erano azzerate nelle perdite delle banche. Piaccia o no, in Europa funziona così.