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 2015  novembre 18 Mercoledì calendario

Gli africani si riproducono troppo. Cosa fare?

Da adesso fino al 2050, la popolazione africana potrebbe raddoppiare, raggiungendo così i 2,4 miliardi di persone prima di assestarsi nel 2100 sui quattro miliardi. Inattese, le proiezioni demografiche elaborate dall’Organizzazione delle Nazioni unite sconvolgono le prospettive di sviluppo del continente, soprattutto se le si confronta con le cifre della crescita economica.
L’ultimo rapporto dell’African Development Bank (Afdb), dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) e del Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (Pnud) sul futuro economico dell’Africa prevede infatti che il tasso medio di crescita del 4,5% del Prodotto interno lordo (Pil), quale si è registrato negli ultimi quattro anni, si manterrà invariato nel 2015 e nel 2016. A priori, si tratta di un’impresa notevole se la si confronta con quelle dell’eurozona (0,9% nel 2014) o dell’America latina (1,7%) e di tutto rispetto in rapporto a quelle dell’Asia meridionale e orientale (7%). Tuttavia, se si guarda al Pil pro capite, il quadro peggiora notevolmente: la crescita della ricchezza scende all’1,6% nell’Africa subsahariana, contro lo 0,4% dell’eurozona, lo 0,6% dell’America latina e il 6% dell’Asia. In altri termini, nei prossimi decenni la crescita demografica africana potrebbe rallentare fortemente il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni locali. Questa prospettiva dovrebbe indurci a elaborare misure d’urgenza; al momento, però, essa non sembra suscitare grandi reazioni.
Allo stato attuale, la popolazione africana cresce del 2,5% ogni anno, a fronte di una media mondiale dell’1,2%. Se l’America latina e l’Asia seguono quest’ultima tendenza, l’America del Nord cresce ancora più debolmente (0,4%) mentre l’Europa è quasi stazionaria. Nel grande processo di transizione demografica (che vede diminuire sia la mortalità sia la natalità), l’Africa resterebbe quindi in disparte. Ma si tratta di semplice ritardo? In effetti, capita spesso che, nel corso della transizione, la mortalità diminuisca prima della fecondità. Si apre allora una fase di forte crescita demografica, che si può considerare come un periodo instabile di transizione. Più tale periodo dura, più la popolazione aumenta.
L’America latina e l’Asia hanno così conosciuto, per più decenni, tassi di incremento demografico annuo superiori o pari al 2% che, per il periodo tra il 1950 e il 2050, porteranno a una moltiplicazione delle popolazioni rispettivamente del 4,7% e del 3,7%. Da sessant’anni a questa parte, l’Africa subsahariana supera la soglia del 2%, e questo andamento potrebbe perdurare per molti decenni ancora. In tal caso il coefficiente moltiplicatore sarebbe allora molto probabilmente superiore a undici e la popolazione potrebbe continuare a crescere anche dopo il 2050. Sarebbe dunque registrabile una specificità dell’Africa subsahariana, giacché l’evoluzione del Nordafrica è stata molto diversa.
La situazione è il portato dell’insistenza di una forte fecondità. Quest’ultima, oltre ad aver esibito livelli particolarmente elevati, all’inizio della transizione è diminuita più lentamente nell’Africa subsahariana che in America latina e in Asia. L’attuale fecondità africana corrisponde così a quella registrata quarant’anni fa in queste due regioni. Ma la crescita demografica si spiega, in parte, anche con la diminuzione della mortalità. La speranza di vita nel continente, per quanto ancora lontana dalla media mondiale (70,5 anni nel 2010-2015), ha guadagnato, dal 1950, più di vent’anni, passando da 36 a 57 anni. La diminuzione del tasso di mortalità (numero di decessi in rapporto alla popolazione totale) ha quindi compensato la debole diminuzione della fecondità.
L’indifferenza dei responsabili sanitari
Tale evoluzione sconcerta ancora l’osservatore. Spesso, una riduzione di mortalità, soprattutto infantile o giovanile, induce una diminuzione della fecondità, sia pure in ritardo, poiché le famiglie constatano che sopravvive un maggior numero di figli. Di fatto, dopo il 1950, la mortalità giovanile (tra 0 e 5 anni) si è ridotta di un terzo a sud del Sahara, passando dal 30% al 10%; ma ciò non ha ancora avuto effetto sulla fecondità.
In Africa, dove la maggior parte delle nascite avviene all’interno dei matrimoni – o di qualsiasi altra forma di unione riconosciuta –, l’evoluzione dell’età in cui si contrae la prima unione può avere un suo ruolo. L’aumento dell’età, per esempio, ha grandemente contribuito alla diminuzione della fecondità in un paese come la Tunisia. Ora però uno studio condotto nel 2003 in trenta paesi dell’Africa Sub-sahariana ha mostrato che in essi il matrimonio continua a essere contratto sempre molto precocemente. Più della metà delle donne intervistate tra i 20 e i 25 anni era stata sposata prima dei 20 anni in due terzi di quei paesi, e più del 75% di loro in sette paesi. Uno studio pubblicato nel 2013 in cui sono confrontati i risultati delle due inchieste più recenti fatte in 34 paesi dell’Africa subsahariana, ha rivelato un aumento medio dello 0,3% annuo in cinque anni. L’innalzamento dell’età matrimoniale è quindi molto lento, addirittura inesistente in alcuni Stati.
Spesso, la reale fecondità di un paese si rivela vicina al numero di figli desiderati dalla popolazione. Eccezion fatta per situazioni di costrizione, come accade in Cina o in India (all’epoca delle prime grandi campagne di sterilizzazione), la prima condizione per avere pochi figli è dunque quella di volerne pochi. Nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo, il numero di figli desiderati è rapidamente sceso a 2-3. Ma in Africa resta molto elevato. Stando a uno studio realizzato nel 2010, in 18 paesi su 26 il «numero ideale di figli» dichiarato dalle donne sposate era in media superiore a cinque, e in due casi superiore a otto. Lì dove sono stati intervistati anche gli uomini, l’ideale era quasi ovunque superiore a cinque e superava gli otto in sei paesi – con il record del Ciad che saliva a 13,7 figli. Se i genitori, in particolare i padri, desiderano una famiglia numerosa, ciò si deve principalmente al fatto che questa è ritenuta rappresentare una fonte di ricchezza, poiché i figli possono aiutare nei campi, sorvegliare il bestiame e, più tardi, trovare dei lavori in città.
Inoltre, anche quando si desidera limitare la propria discendenza, bisogna comunque disporre di mezzi appropriati: la contraccezione in Africa rimane poco diffusa. Mentre nel 2013, il 63% delle donne che vivevano in coppia ed erano di un’età compresa tra i 15 e i 49 anni utilizzava un qualche metodo contraccettivo, e il 57% un metodo moderno (la pillola, la spirale o la sterilizzazione), le proporzioni scendevano rispettivamente al 25% e al 20% nell’Africa subsahariana, e ancora più giù nell’Africa centrale e occidentale. I deboli tassi osservati in Ciad, Guinea, Mali o Eritrea (meno del 10%) indicano che i responsabili politici e sanitari di quei paesi manifestano una totale indifferenza per la questione, quando non sono decisamente favorevoli a una forte fecondità.
Nell’inchiesta periodica realizzata dalla Population Division delle Nazioni unite, tutte le amministrazioni dell’Africa occidentale, comprese quelle del Mali e del Niger, dichiarano di desiderare una diminuzione del tasso di fecondità, fornendo in particolare un «sostegno diretto» alla pianificazione familiare. Eppure queste intenzioni non sembrano ancora tradursi in realtà dei fatti, considerato, per esempio, che i metodi contraccettivi restano poco accessibili. «Nell’Africa subsahariana» osserva Jean-Pierre Guengant, direttore di ricerca emerito dell’Institut de recherche pour le développement (Ird) «una larga parte dei responsabili politici ancora ritiene che la crescita rapida della popolazione sia un fattore di prosperità, poiché contribuisce all’espansione dei mercati e alla potenza dei paesi interessati».
Tuttavia, le cose cominciano a cambiare, lentamente. Nel 2011, nove governi dell’Africa occidentale, il Fondo delle Nazioni unite per la popolazione (Unfpa), l’Agence française de développement e molte grandi fondazioni private hanno firmato un accordo, chiamato «partenariato di Ouagadougou», destinato a favorire la pianificazione familiare. Esistono anche delle iniziative locali. In Niger, l’associazione Animas-Sutura nel 2007 ha installato una radio comunitaria che copre una ventina di villaggi per diffondere consigli in materia di igiene, nutrizione e salute e che in particolare parla di malattie sessualmente trasmissibili e di pianificazione familiare. Nonostante nei villaggi coinvolti dal progetto il ricorso alla contraccezione resti piuttosto modesto (intorno al 20%), questo è ora paragonabile a ciò che si osserva nelle aree urbane. Quanto all’Association pour la promotion féminine de Gaoua (Apfg), essa sviluppa intorno a questa città del sud del Burkina Faso azioni integrate di alfabetizzazione, formazione all’artigianato e pianificazione familiare. Infine, la comunità scientifica mondiale comincia anch’essa a interessarsi al problema.
Una «rivoluzione contraccettiva»
Tuttavia, in materia demografica, l’inerzia è forte. È la ragione per la quale le previsioni per il 2050 sembrano abbastanza attendibili. Le cifre più sopra elencate sono quelle dell’ipotesi media avanzata dalle ultime proiezioni delle Nazioni unite; quest’ipotesi implica una forte diminuzione della fecondità, con il numero medio di figli che passerebbe da cinque a tre in poco più di una generazione. Se si riuscisse ad andare ancora più veloci (2,6 figli nel 2050 nell’ipotesi più prudente delle Nazioni unite), la popolazione dell’Africa raggiungerebbe i 2,2 miliardi nel 2050, ossia solo il 10% in meno dell’ipotesi media. In prossimità del 2100, tuttavia, la diminuzione sarebbe molto più sostanziale: – 40%. Ancora una volta, il calcolo mostra che per ottenere un cambiamento significativo a lungo termine è imperativo modificare molto per tempo i comportamenti.
L’Algeria, l’Egitto, il Marocco o la Tunisia hanno conosciuto transizioni molto più rapide. Oggi, la fecondità oscilla tra i due e i tre figli per donna e le proporzioni di coloro che utilizzano metodi contraccettivi sono comprese in un range tra il 60% e il 68% con una percentuale di ricorso ai metodi moderni che oscilla tra il 52% e il 58%, il che assesta tali paesi su una media mondiale. Nell’Africa subsahariana, il Sudafrica raggiunge gli stessi livelli (60% delle donne, che nella quasi totalità si avvalgono di metodi contraccettivi moderni) e il Kenya e il Malawi, con il loro 46%, vi si avvicinano.
Diffondere l’uso della contraccezione tra le popolazioni africane non ha dunque nulla di impossibile. Ma, proprio per ciò, i programmi che gli organismi internazionali importano senza prestare grande attenzione alle specificità locali hanno mostrato i loro limiti. Anche lì dove questi hanno potuto avere una certa efficacia, come in Ghana o in Kenya, la fecondità sembra poi essersi bloccata sui quattro o cinque figli per donna. È necessario dunque un maggior coinvolgimento dei responsabili politici o religiosi e dei leader di ogni tipo. Non sempre è necessario che i governi sostengano ostentatamente il ricorso alla contraccezione; possono anche lasciare liberi di agire gli intermediari (privati e associazioni), come ha mostrato l’esperienza di paesi come l’Algeria o l’Iran.
La migliore leva resta tuttavia una mobilitazione diretta delle donne. Da questo punto di vista, e anche se l’effetto non è universale, generalmente si ritiene che un innalzamento del livello di educazione delle ragazze sia indispensabile. Ora però, ad esempio in Africa occidentale, nel 2010 circa il 46% delle donne di età compresa tra i 20 e i 39 anni non aveva ricevuto educazione alcuna (contro il 31% degli uomini).
Le popolazioni africane aspirano legittimamente a un miglioramento delle proprie condizioni di vita che la diminuzione del ritmo della crescita demografica potrebbe solo favorire. Investire nell’educazione e migliorare lo status delle donne potrebbe provocare una «rivoluzione contraccettiva» i cui benefici coprirebbero ampie sfere della salute, ben al di là di quella rappresentata dalla sola limitazione delle nascite.
(Traduzione di Miriam Capaldo)