Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 18 Mercoledì calendario

La storia di quell’invenzione tutta italiana che si chiama «commissario alla spending review»

Bisognerà pur scriverla, prima o poi, la storia di quell’invenzione tutta italiana che si chiama il commissario alla spending review e che fa il paio con la proliferazione delle costose authority: l’Italia è il paese col maggior numero di autorità e allo stesso tempo col maggior numero di regole impunemente disattese.
Qualche appunto sulla spending review può essere utile per mettere a fuoco questa telenovela che non riesce ad avere un buon finale, tanto che invece di rottamare le spese vengono rottamati i commissari. L’ultima vittima è Roberto Perotti, professore della Bocconi. Anche lui ha dovuto arrendersi: un conto è spiegare algoritmi e teorie alla lavagna ai suoi studenti, un altro è convincere i politici a tagliare le spese.
Ma andiamo con ordine. Il capostipite è Dino Piero Giarda, laureato alla Cattolica e poi docente di economia nella stessa università. All’inizio del 2012 Mario Monti gli affida il compito di individuare in che modo razionalizzare la spesa pubblica: nasce la spending review. Lui si mette al lavoro e annuncia di avere individuato 300 miliardi di risparmi, cioè di tagli agli sprechi. Nel maggio 2012 presenta il suo dossier e dice: «L’irresponsabilità finanziaria è un tratto caratteristico del nostro paese. Non solo: nessun paese al mondo ha uno squilibrio così rilevante tra spesa ed entrate. Su circa 650 miliardi di spesa pubblica vi sono 300 miliardi di euro aggredibili di cui un terzo fanno capo allo Stato e due terzi agli enti decentrati».
Il dossier elaborato da Giuarda sostiene che «in 30 anni i costi di produzione dei servizi pubblici sono aumentati del 30% in più rispetto ai costi di produzione dei servizi privati» e aggiunge che l’insieme dei provvedimenti che originano la legge 42 (federalismo fiscale) «non sono in grado di attaccare in modo significativo lo squilibrio tra i 240 miliardi di spesa gestite dagli enti decentrati e i 100 miliardi di entrate proprie». Conclusione: con gli opportuni provvedimenti è possibile risparmiare subito 100 miliardi. L’elenco predisposto è minuzioso, qualche esempio: la riduzione delle prefetture, l’utilizzo di beni demaniali per risparmiare 30 milioni l’anno di locazioni solo da parte del Viminale, sinergie tra polizia, carabinieri ed esercito, tagli al numero dei giudici di pace e ai tribunali, razionalizzazione della motorizzazione, tagli a tutti i ministeri e soprattutto il ricorso alla centrale d’acquisto: «Le amministrazioni che hanno acquistato i prodotti tramite la Consip – annota Giarda – risparmiano a volte fino al 70 %. Una centrale telefonica, ad esempio, in convenzione, costa il 77% in meno. Ma solo il 3% delle forniture pubbliche passa attraverso la centrale unica».
Il piano non riesce a fare passi avanti, Giarda fa un passo indietro e Mario Monti pesca Enrico Bondi, colui che aveva salvato Parmalat dal crack anche se poi il gruppo è finito in mani francesi. Bondi si mette alla scrivania e anche lui presenta un documento per risparmiare un centinaio di miliardi: «Va determinato un benchmark interno (cioè un parametro oggettivo di riferimento, ndr) per le varie amministrazioni, che dovrà costituire una base per la programmazione degli acquisti ai fini di ottimizzarne la quantità. Dal lavoro sin qui svolto emerge che, grazie alla creazione di un sistema a rete per gli acquisti e all’individuazione di indicatori per le quantità, già nella seconda parte del 2012 può essere conseguito un risparmio rispetto agli attuali volumi di spesa».
Anche lui fa la sua bella lista e addirittura invita i cittadini a segnalare gli sprechi, annunciando poi trionfalmente di avere ricevuto oltre 100 mila segnalazioni che in parte accetta: taglio di tribunali, procure, giudici di pace ed effettivi dell’esercito, riequilibrio della proporzione tra docenti e classi di alunni, efficienza nella gestione delle supplenze, riforma del trasporto pubblico locale, riduzione del numero delle autorità portuali, stretta sulle spese per i convegni, le consulenze e le spese di rappresentanza, oculata gestione degli immobili pubblici.
Il 7 gennaio 2013 stanco di predicare al vento si dimette. Il governo Letta lo sostituisce con Carlo Cottarelli, ex-Banca d’Italia ed ex-Fondo monetario internazionale. Pure lui si mette diligentemente al lavoro e annuncia un risparmio di 59 miliardi in tre anni, tanto per cominciare. Propone: accorpare i comuni sotto i 10 mila abitanti, eliminazione dell’indennità di fine mandato per i sindaci, collegare la remunerazione di presidenti e consiglieri regionali a quella del sindaco dei comune capoluogo, taglio dei vitalizi e delle indennità di funzione, stop al cumulo pensione-stipendio per chi si trovi a svolgere incarichi di governo o in sedi istituzionali, taglio del 20% ai mass media collegati alla politica, realizzazione di un prontuario nazionale per la sanità, taglio delle partecipate pubbliche, reiscrizione del codice degli appalti, centralizzazione degli acquisti della pubblica amministrazione.
Il dossier finisce nel cassetto (senza fondo) di Matteo Renzi e Cottarelli dice addio: «Nessuno mi chiedeva il parere al momento di stilare i provvedimenti. Ma facevo il consulente e in Italia funziona cosi: se non hai potere di firma si dimenticano di te».
Il presidente del consiglio non fa una piega e si rivolge a Roberto Perotti, professore alla Columbia University di New York e poi alla Bocconi. È il settembre 2014 e anche lui cerca di dare contenuti alla spending review. Propone il taglio alle agevolazioni fiscali («le tax expenditures sono un tratto distintivo del sistema fiscale italiano che, da un lato, si caratterizza per l’elevato livello di tassazione, ma dall’altro prevede un numero altrettanto elevato di agevolazioni, detrazioni e deduzioni, in moltissimi casi frutto di microconcessioni, che causano un mancato gettito fra i 253 e i 152 miliardi»), limitare i finanziamenti a pioggia che vengono elargiti alle imprese, tagliare i privilegiano delle ambasciate («in media, le remunerazioni nette degli ambasciatori italiani sono due volte e mezzo quelle dei tedeschi, con punte che, in Europa e in America del Nord, arrivano quasi a triplicarsi»), intervenire sulla corte costituzionale («ogni giorno, ogni giudice costituzionale costa 750 euro di sole auto blu... La consulta costa ogni anno un totale di 45 milioni di euro»), intervenire sui ministeri e anche sul meccanismo dei fondi europei.
Qualche giorno fa se n’è andato: «Non mi sentivo molto utile». Ovvero anche le sue proposte sono finite nel cassetto di Renzi. Adesso ci prova Yoram Gutgeld, economista israeliano naturalizzato italiano e deputato Pd: «Punto a risparmiare – annuncia – almeno 10 miliardi di euro nel 2016». Insomma, la spending review all’italiana continua. Il risultato dei mancati tagli è che la spesa pubblica è costata lo scorso anno agli italiani 692 miliardi di euro, dal 2010 al 2014 è cresciuta di 27,4 miliardi.