Il Messaggero, 18 novembre 2015
«L’antiterrorismo francese dovrebbe prendere lezioni dagli italiani e dall’Fbi. Se non si fa prevenzione, poi rimane solo da pulire i marciapiedi dal sangue delle vittime». Colloquio con Edward Luttwak
Lo ha detto altre volte: i francesi dovrebbero imparare i metodi antiterrorismo adottati dagli italiani e dall’Fbi. Edward Luttwak è noto per essere un esperto di strategia militare e di politica internazionale con posizioni spesso provocatorie. Anche oggi, con il mondo ancora sotto shock per l’attacco contro Parigi, ripete un giudizio severo: «Il terrorismo si può prevenire, ma ci vuole una strategia, e i francesi non ce l’hanno».
Le autorità dicono che almeno uno dei sospetti era nel loro mirino.
«Appunto, era nel mirino e basta. È quel che l’antiterrorismo francese fa: costruisce immensi carteggi, dossier di centinaia di fogli. È un metodo sbagliato. Intercettano qualcuno che sta parlando di jihad, lo schedano, cominciano a raccogliere informazioni, foto, registrano conversazioni. Il loro mestiere è di essere i biografi di questa gente».
Va bene, allora in cosa siamo diversi noi italiani e l’Fbi?
«Quando e come avverrà l’attentato è quasi impossibile saperlo, spesso non lo sanno neanche i terroristi arruolati. Quel che sappiamo è che ci sono persone che possono essere arruolate, quindi persone che vanno controllate 24 ore al giorno 7 giorni a settimana. Ma non ci sono le risorse per fare un controllo a tappeto di queste dimensioni. Allora? Bisogna diminuire il numero di individui a rischio che dobbiamo controllare. Quindi, l’Italia appena sente la parola “jihad” cala sulla persona che l’ha pronunciata, ne studia il comportamento e cerca di capire se si tratti di persona radicalizzata, e allora cerca subito appigli legali per imprigionarla, per estradarla: tasse non pagate, multe ignorate, violazioni che diano una leva legale per intervenire. Quando scremi il serbatoio di possibili terroristi, hai tempo e risorse per seguire quelli che restano nel Paese».
Anche l’Fbi fa lo stesso?
«L’Fbi, se sente la parola jihad in ambito sospetto, fa accostare l’individuo da agenti in incognito, che si fingono estremisti ben più informati, con piani di intervento e disponibilità sia di fondi che di armi. Diciamo che vanno a provocare una reazione, e se il sospetto aderisce al finto progetto terrorista, ecco che ci sono gli appigli legali per incriminarlo».
È vero che conoscere il proprio nemico è il primo passo per difendersi, ma questa non è una provocazione per intrappolare la gente?
«Con il terrorismo, se non si fa prevenzione, l’unica cosa che ci resta da fare è di pulire i marciapiedi del sangue delle vittime».
Lei dice che questo avviene quando si sente la parola jihad ma è così facile? Basta ascoltare?
«No, bisogna avere personale esperto che conosca la lingua. L’Fbi ha un drappello di arabi che collaborano. Soprattutto arabi cristiani. Ma in questo sistema ci sono dei punti deboli. L’attentato alla maratona di Boston ad esempio è passato sotto il naso dei controllori perché mancavano esperti di lingua cecena. E questo è il rischio per il futuro sia del sistema Fbi che di quello italiano».
Cioè la mancanza di agenti con conoscenza della lingue?
«La nuova ondata di migranti è estremamente varia, proviene da Paesi e culture diverse. E sono tantissimi. Abbiamo dunque un problema: il numero degli individui da controllare è troppo grande, e la varietà delle lingue, dei dialetti, delle culture è sconfinato. Adesso c’è il rischio che il sistema italiano di prevenzione venga sommerso da questa valanga».