Avvenire, 18 novembre 2015
Quando il calciomercato di riparazione si faceva a novembre
Già assediati dalle chiacchiere, dai nuovi titoloni del calciomercato: e mancano ancora 40 giorni e rotti alla riapertura ufficiale della campagna acquisti e cessioni, sessione di gennaio. Si salvi chi può. Bancarelle esposte per un lungo mese con il campionato a pieno motore, almeno cinque le giornate di Serie A a cavallo tra i gironi di andata e ritorno che vengono sviluppate tra valigie chiuse e riaperte, allenatori che devono ricucire un vestito in corsa, dirigenti che fanno, disfano e magari sono pure soggetti a qualche tacito ricatto da parte di procuratori avidi e giocatori che tirano indietro la gambetta per agevolare un trasferimento.
Gennaio, in questo senso, è diventato un mese amato da tifosi e giornalisti, interminabile e indigesto per gran parte del comparto calcistico attivo, più destabilizzato che tutelato dal giro di giostra della gran fiera delle pedate. Qualcuno, ancora, lo definisce «calciomercato di riparazione». Non è così, semmai lo era fino a 20 anni or sono, quando proprio in queste settimane in grigio si consumava quasi sottovoce il breve, sobrio rito del mercato di novembre, in perfetta nuance con la stagione: pochi giorni, una decina al massimo a inizio del mese, poi spostati a fine ottobre dagli anni ’80 in poi; e regole fisse, precise, che impedivano sconvolgimenti a dirigenti anche ricchi di portafoglio, idee o fregole di incasso. Per molti anni i trasferimenti erano consentiti, innanzitutto, solo tra società di diversa categoria oppure tra consorelle dello stesso campionato a patto che il soggetto in questione non fosse sceso in campo nemmeno per un minuto fino a quel momento: il torneo cominciava più tardi, tempi tra prime giornate e sessione di mercato erano notevolmente più corti rispetto a oggi: e dunque non era raro che a disposizione, causa infortuni o qualche bega tecnica, ci fossero nomi importanti.
Da un ritaglio di giornale anno di grazia 1973, per esempio, si evince che sono a disposizione i futuri campioni del mondo Lele Oriali e Claudio Gentile, e ancora due califfi quali il milanista Ramòn Turone e Aldo Agroppi, e ancora il capitano della Roma Francesco Cordova: nessuno di essi si mosse, il passaggio tra Serie A e Serie A era già diventato merce rara, il mercato novembrino pareva ormai avere smarrito quelle fiammate che produssero “bombe” vere nei primi anni seguiti all’introduzione della riapertura delle liste.
Il Milan costruì uno scudetto quello del 1962, spesando il talentuoso ed etilico Jimmy Greaves e assumendo dal Brasile Dino Sani, che magicamente mise in ordine il puzzle rimasto irrisolto fino a quel momento per Nereo Rocco. L’anno dopo fu l’Inter ad aprire la porta di novembre per Jair, già preso dal Portoguesa e tesserato solo in autunno, mentre per quanto riguarda la Juventus, sono i maligni – massime Gianni Brera – a sostenere la tesi che sia stato proprio Umberto Agnelli, presidente federale a cavallo tra i ’50 e i ’60, a favorire l’introduzione del secondo mercato per consentire all’amata Goeuba di realizzare nel 1960 l’obiettivo che non era riuscita a raggiungere in estate, vale a dire l’acquisto dalla Sampdoria di Bruno Mora. Grandi botti autunnali poi scemati con l’andare del tempo. A muoversi, quasi sempre, giovani da svezzare (tipo il ventenne Paolo Rossi, mollato al Como da un’improvvida Juventus) o esuberi: era principalmente il mercato degli Scarnecchia, dei Padalino, dei Manicone, dei giocatori “bravi ma non troppo”. Poi, con l’avvento della legge Bosman, si è passati dal poco al tanto, al troppo. Non era più tempo di mercatini, di ritrovi in hotel semivuoti, freddini dentro e fuori. E con il nuovo millennio, allora, via a un’altra fiera con tutti i crismi del calcio 2.0: globale, mediatica, anche ricca, forse. Da sfamare c’è il tifoso, e non solo. La nuova abbuffata di affari, sòle e fole è già cominciata, in quel novembre che un tempo era lì, senza strilli, in una pagina interna di giornale.