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 2015  novembre 18 Mercoledì calendario

In morte di Mario Cervi

Dino Messina sul Corriere della Sera
Arrivava alla sede del «Giornale» in via Negri a Milano tutti i giorni verso le quattro del pomeriggio. Salutava i colleghi e chiedeva se c’era bisogno di lui. «Qualsiasi argomento gli chiedessimo», ricorda il direttore Alessandro Sallusti, «apriva il file di una memoria straordinaria. Così stupiva la sua modestia, lui che era stato tra i fondatori del quotidiano, per il rispetto che aveva delle gerarchie, fossero rappresentate anche dal più giovane caposervizio appena assunto».
Mario Cervi, uno dei grandi inviati del «Corriere della Sera» che alla fine del 1973 aveva seguito Indro Montanelli nell’avventura del «Giornale nuovo», espressione di una destra moderata, si è spento ieri a 94 anni dopo una vita dedicata al giornalismo e alla divulgazione storica. Al «Giornale», dove curava la posta dei lettori, come prima aveva fatto l’amico Indro, aveva consegnato gli ultimi pezzi in luglio, poi era partito per l’Eubea, l’isola greca di fronte a Volos che frequentava da sempre. Un incidente al femore gli aveva creato complicazioni. Il suo cuore di novantaquattrenne non ha retto.
Mario Cervi era uno dei decani del giornalismo italiano, che rappresentava al meglio per lo stile, la moderazione e un’aderenza ai fatti appresa nel lungo tirocinio da cronista. Laureato in legge, era entrato al «Corriere» nel 1945 in cronaca. Il padre, pellicciaio di Crema, lo aveva raccomandato a uno stenografo, Umberto Frisoni, e il giovane reduce, sottufficiale di fanteria in Grecia, aveva cominciato dalla gavetta, facendo il giro dei commissariati. Il legame con la Grecia, dove dopo l’8 settembre era stato salvato dai nazisti grazie alla generosità di una famiglia, non si sarebbe mai interrotto. Un giorno da Atene arrivò a trovarlo Dina Ciamandani, che lo aveva ospitato nei giorni del pericolo: quella ragazza sarebbe diventata sua moglie e gli avrebbe dato la figlia Margherita. La sua scomparsa nel 2007 fu il grande dolore degli ultimi anni.
Da reporter a estensore, quindi a «inviatino», esperto di giudiziaria e a grande inviato: la carriera di Mario Cervi in via Solferino toccò il culmine nel 1973, quando fu uno dei primi giornalisti del mondo a testimoniare il golpe di Pinochet e la fine di Allende. Tuttavia, il giorno del golpe, raccontava, non vide pubblicato lo scoop dell’attacco alla Moneda per una protesta dei tipografi che volevano in prima pagina un loro comunicato sui fatti cileni. Tornato a Milano, accettò l’offerta di Montanelli. Al mestiere di inviato, che lo aveva visto attivo nella crisi di Suez (1956) e poi nella grande alluvione del Bangladesh (1970) accanto a cronisti come Giorgio Bocca e Sandro Viola, Cervi univa quello di scrittore. Dopo un libro, L’aviatore (Vallecchi), in cui raccontava la sua passione per il volo, che faceva il paio con quella per lo sci nautico coltivata sino a 80 anni, aveva scritto nel 1965 il libro che considerava la sua opera migliore, la Storia della guerra di Grecia uscita da Sugar e poi riedita da Mondadori nel 1969. Ma la svolta avvenne a metà degli anni Settanta, quando a pranzo nella «Tavernetta» di Elio in via Fatebenefratelli, dove Indro amava mangiare i fagioli all’uccelletta, l’amico direttore gli confessò che non riusciva a portare avanti la Storia d’Italia per i troppi impegni. Cervi si propose di aiutarlo e ne nacque un sodalizio durato un quarto di secolo e tredici volumi, dall’ Italia littoria all ’Italia del millennio (sempre per Rizzoli).
Un sodalizio, quello con Montanelli, che sembrava indissolubile. Nel 1994 Cervi seguì il suo direttore ancora una volta nell’avventura della «Voce» dopo lo strappo con Silvio Berlusconi. «Lo feci per affetto», confidava agli amici, ma presto si rese conto di aver sbagliato e passò al «Resto del Carlino», quindi ritornò al «Giornale» con il viatico dell’amico Indro, con cui tuttavia nel 2001 avrebbe ingaggiato un duello per la decisione di Montanelli di votare per il centrosinistra. Quasi un tradimento della storia comune, lo considerò Cervi.
Nel 1997, quando si dimise dalla direzione del «Giornale», Vittorio Feltri disse all’editore Paolo Berlusconi, su suggerimento di Stefano Lorenzetto, che il suo successore ideale sarebbe stato Cervi. Un incarico durato sino al 2001, quando compiuti ottant’anni, passò il testimone al vice Maurizio Belpietro. «Di uomini così si è perso lo stampo», dice Feltri che oggi sul «Giornale» firma un appassionato necrologio. «Era un mostro di bravura, ma stava sempre un passo indietro, quando aiutava Montanelli a redigere i fondi o a scrivere i libri. Un signore».
Dell’understatement del grande collega racconta anche Paolo Granzotto, che con Cervi condivise per anni l’ufficio e anche «la stanza» del dialogo con i lettori: «Teneva nettamente separate la vita di lavoro da quella privata. Al giornale stava molto per conto suo. Infaticabile, divorava i giornali dalla prima all’ultima riga, scriveva a una velocità incredibile e quando aveva finito si attaccava al telefono, piegandosi quasi sotto la scrivania nel timore che qualcuno lo ascoltasse».
Lo stile e la moderazione di Mario Cervi, un’icona milanese con la sua coppia di barboncini bianchi, mancheranno a tanti, non solo in via Negri.

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Beppe Severgnini sul Corriere della Sera
Il metodo Cervi era semplice. Frequentava la storia, usava la logica, conosceva la sintassi. I suoi articoli non volevano entusiasmare: intendevano convincere. E ci riuscivano. Sospetto che, talvolta, l’autore non fosse interamente convinto di ciò che sosteneva. Ma era così efficace che, dopo quaranta righe, finiva per persuadere anche se stesso.
Illustrava la questione. Spiegava il senso dell’intervento. Riassumeva i fatti. Esponeva i propri argomenti. Confutava quelli dell’avversario. Cercava di convincere. Exordium. Propositio. Narratio. Confirmatio. Confutatio. Peroratio. Mario Cervi era un trattato di oratoria seduto a una macchina per scrivere.
Come ci riusciva? Lo aiutavano le tante letture, le molte esperienze all’estero e la lunghissima militanza nel giornalismo milanese — meno emotivo di altre forme di giornalismo nazionale. Anche l’abitudine a rispondere ai lettori — prima insieme a Indro Montanelli, poi in proprio — gli aveva insegnato a essere chiaro e rispettoso. Due aggettivi che s’è portato addosso per tutta la vita, come tatuaggi.
La scrittura di Mario Cervi era un esercizio di autocontrollo. Gli ultimi vent’anni non devono essere stati facili per lui: un intellettuale conservatore in un’Italia dove — complice la politica — i due vocaboli erano diventati un ossimoro. Ma credo che, in fondo, si sia divertito. L’intelligenza polemica lo aiutava a rispettare tutti i punti di vista. La raffinatezza intellettuale lo spingeva a giocare con gli avversari. La genuina mancanza di retorica — il motivo per cui Montanelli lo apprezzava tanto — gli evitava eccessi inopportuni ed entusiasmi inutili. La capacità di sintesi gli consentiva di arrivare sempre al punto. E il punto finale è questo: siamo tutti di passaggio, ma ci sono passaggi sbracati e passaggi eleganti.
Quello di Mario Cervi è stato impeccabile.

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Michele Brambilla sulla Stampa

Quando, nel giugno del 1974, Indro Montanelli lasciò il Corriere della Sera per fondare il Giornale, Franco Di Bella - che del Corriere sarebbe diventato direttore tre anni dopo - gli disse che s’era «portato via l’argenteria di famiglia». Era vero. Traslocando in piazza Cavour, dove il Giornale ebbe la sua prima sede, Montanelli s’era preso con sé le firme migliori: Enzo Bettiza, Egisto Corradi e, appunto, Mario Cervi.

Nato a Crema nel 1921, ufficiale di fanteria in Grecia durante la seconda guerra mondiale, arrestato dai tedeschi dopo l’8 settembre, Cervi era entrato nel giornalismo a guerra finita, e c’era entrato dalla porta principale: quella che sta al numero 28 di via Solferino. Del Corriere era stato dapprima cronista giudiziario. Poi, come inviato, seguì molti grandi avvenimenti: la crisi di Suez del ’56, il golpe dei colonnelli in Grecia nel ’67, quello cileno del ’73. Quando, a Santiago, morì Salvador Allende, Cervi era uno dei tre giornalisti italiani presenti.

Forse fu anche per questa sua abitudine ad esser puntuale ai grandi appuntamenti della storia che Montanelli lo volle come partner nella scrittura di ben tredici volumi della fortunatissima collana della «Storia d’Italia». Un sodalizio che diede a Cervi parecchia notorietà, ma anche un’etichetta ingrata: quella del numero 2. A fianco di Montanelli, chiunque lo sarebbe sembrato.

Ma Cervi era un numero uno. Un fuoriclasse per capacità di comprensione dei fatti e di scrittura; e anche per stile, per moderazione, per eleganza. Uomo di profonda fede liberale, aveva seguito Montanelli quando, come molti giornalisti e molti lettori, aveva ritenuto che il Corriere, con la direzione di Ottone, stesse sbandando a sinistra: e nel campo liberale Cervi è rimasto fino all’ultimo. Ma appunto con uno stile e una moderazione che l’hanno sempre distinto dai tanti urlatori della destra degli ultimi anni.

Dal 2007 al 2009 è stato mio vicino di stanza al Giornale. Uomo umile e signore d’altri tempi, entrava bussando e chiedendo permesso; poi faceva leggere, per chiedere un parere, l’articolo che il direttore gli aveva chiesto magari un’ora prima, e che lui aveva scritto (al computer: non era un nostalgico della Lettera 22) di getto, ma senza errori e senza frasi contorte, anzi con quella chiarezza che è l’imperativo categorico del grande giornalista, il quale non scrive per il Palazzo o per i colleghi ma per i lettori. E proprio con i lettori Cervi ha sempre voluto tenere una corrispondenza quotidiana, ereditando da Montanelli pure la rubrica della Stanza. Lo so che è una frase retorica: ma con Cervi se ne va uno di quei giornalisti di razza di cui – salvo rare eccezioni – s’è perso lo stampo.

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Paolo Granzotto per il Giornale

«Usava la penna - gloriandosene - come un fioretto»

 

Mario Cervi - cremasco, classe 1921 - aspettò che la brigata Montanelli avesse posto le basi economiche, redazionali, grafiche, organizzative, tipografiche e diffusionali del futuro Giornale, aspettò che fosse stabilita la data d’uscita martedì 25 giugno 1974, san Guglielmo - per far capolino all’Hotel De Milan di via Manzoni dove, grazie alla generosità della proprietaria, Daniela Bertazzoni, Indro aveva domiciliato il quartier generale. Era fatto così, Mario: a lui interessava il mestiere, scrivere e pubblicare, non le grane operative, tecniche e di «cucina», che sono di ogni quotidiano, piccolo o grande che sia. Tant’è che delle responsabilità di vertice non andò mai a caccia: galloni sì (fu anche direttore del Giornale), a quelli non disse mai di no, ma dovevano restare virtuali. Solo in potenza, mai in atto.

Veniva dal Corriere, dove era entrato nel ’45. Il padre, pellicciaio, era buon amico di Umberto Frisoni, uno degli stenografi (allora e finché non furono scalzati dai dittafoni, dai fax e dalle mail, parte viva e saliente della redazione) del quotidiano. Frisoni ci mise la risolutiva buona parola e Mario varcò come praticante cronista la soglia di via Solferino. Dove fece, e col passo del montanaro, quello sicuro, la sua bella carriera finendo inviato con giurisdizione, per lo più, sulla giudiziaria. I grandi processi, a cominciare - come vice di Dino Buzzati - da quello alla «Belva di via San Gregorio», Rina Fort, per finire al caso Montesi, al caso Fenaroli e all’affare Bebawi, furono sua prerogativa. Fece anche un po’ di estero, ma d’alto rango, come la guerra di Suez o il golpe dei Colonnelli in Grecia. Paese che gli era caro, la sua seconda patria, diceva. Lì, ufficiale in grigioverde e dopo l’8 settembre prigioniero dei tedeschi, conobbe Dina, che sarebbe diventata sua moglie. E lì, sulle coste dell’Eubea dove avevano una casa, tornava ogni estate dedicandosi e lo fece fin quasi agli ottant’anni - al suo svago preferito: lo sci d’acqua.

Rimasto al Corriere per una trentina d’anni, il passaggio dall’opulenza, i sontuosi spazi, i riti e l’etichetta di via Solferino alla micragna, il baraccamento e l’informalità di piazza Cavour, dove il Giornale aveva rimediato la prima sede, deve essergli costato, conoscendolo, qualche mugugno. Ma essendo della scuola del «never explain, never complain», non lo diede a vedere. Si trovò un angolo e riprese a fare quel che da anni faceva quando non in giro per servizio: leggere la quotidiana montagna, mai meno di una dozzina, di giornali. Leggere, non sfogliarli dando una occhiata, non limitandosi a quei due o tre articoli per testata: passandoli in rassegna e soffermandosi dalla prima all’ultima pagina. Leggerli a modo suo è cioè non dispiegati sulla scrivania, come i più fanno, ma tenendoli aperti con le due mani alzate davanti agli occhi. Da dietro quel paravento sbuffava ogni tanto la nuvoletta di fumo del suo toscano e questo era l’unico indizio della presenza dell’appartato, del silente Mario in redazione.

Una volta al Giornale ma pur sempre mantenendo la qualifica di inviato, ricoprì il ruolo che più gli si atteneva, quello del commentatore, dell’editorialista «di pronto intervento», come diceva Montanelli. La facilità nell’intervenire senza indugio una qualità sempre apprezzata dei quotidiani gli veniva da quanto accennato prima, dal suo essere un lettore vorace, ciò che unito a una memoria di ferro e magistralmente attrezzata ad archivio, gli consentiva di mettersi alla macchina da scrivere già fornito di tutti i dati, gli antefatti, i riferimenti e i virgolettati occorrenti alla stesura di un pezzo ben fatto, ben informato e scritto con quella prosa semplice, pulita, accessibile, che era nelle sue corde. Il più delle volte non doveva nemmeno ricevere istruzioni sul taglio da dare al commento o al fondo. Sapeva, come del resto l’intera redazione il Giornale era Montanelli -, come la pensava Indro. Del quale, però, non era la fotocopia. «Io sono un uomo d’ordine», diceva, «mentre lui è più anarchico». Pur rispettando la linea montanelliana, i suoi articoli risultavano dunque più pacati, più miti, più arrendevoli se così si può dire. E poi il piglio: il pacato e garbato Mario usava la penna - gloriandosene - come un fioretto (e «fiorettista» lo si chiamava talvolta per burla). Indro lavorava più di clava: una clava squisita, elegante, levigata e non nodosa la cui sferzata era addolcita dall’ironia arguta dei toscani.

Dopo aver firmato un ultimo grande servizio, il Cile fino al suicidio di Allende, Mario tirò i remi in barca, scegliendo di restarsene a Milano, nel suo ufficio sempre straripante di giornali e in compagnia dell’ultimo dei Golia, i suoi barboncini, tutti chiamati così (e però se femmine, Gilda), uno via l’altro. Viveva il Giornale a suo modo, con passione ma senza mai nemmeno sfiorarne la «macchina». Durante la riunione di redazione mattutina interveniva con i suoi pacati «mi pare», mi pare che meriti seguire questo o quello. S’infervorava quando il capo dello sport riferiva su qualche grande torneo tennistico, sport che Mario amava, da competente, più d’ogni altro. Talvolta baruffava con Egisto Corradi, più portato a una visione pragmatica dei fatti di politica internazionale, mentre Cervi era di natura più prudente, più piedi di piombo prima di prendere partito per questo o quel contendente. Finita la riunione, spariva. Non ricordo d’averlo visto, fuori della redazione, in compagnia di qualche collega o dello stesso Montanelli. Il quale diceva: «Beh, sai, ha una vita sua...» lasciando intendere, bofonchiando qualcosa sui tombeur de femmes, chissà quali.

Ricompariva puntualmente il pomeriggio, abbandonando la scrivania solo per unirsi a Indro nella visione fin tanto che lo programmarono - dell’Ispettore Derrick, una serie televisiva tedesca a mio giudizio un po’ noiosa (tedesca, appunto...) ma della quale i due erano voraci appassionati. Se doveva scrivere, era velocissimo. Nel paio d’anni che divisi con lui la stanza, mai lo vidi, quando alla Olivetti (quella da redazione, la pesante Lexicon) sollevare la testa dal foglio, lo sguardo nel vuoto alla ricerca dell’aggettivo giusto, del termine corretto, della forma più comprensibile. Picchiava sui tasti come un forsennato, senza praticamente correggere, con la raffica di «x», un solo rigo. Fatto, consegnava l’elaborato al condirettore Biazzi Vergani e si accendeva il mezzo toscano aspettando che anche Montanelli l’avesse letto. Se trascorsi dieci minuti dalla stanza di Indro non usciva un: «Mario!», che stava a significare che c’era da mettere a registro qualche parola di troppo o di meno, se ne tornava nel suo ufficio per procedere alla seconda delle attività dilette: telefonare. Cervi era un telefonatore compulsivo, capace di stare con la cornetta incollata per intere ore. E anche qui: «Indro, ma tu sai a chi telefona così a lungo?». E per tutta risposta: «Eh... ha una vita sua...».Pur avendo per molti anni vissuto fianco a fianco dei due, intendo Montanelli e Cervi, non ho mai compreso bene quale fosse il loro vero rapporto. Mario stimava Indro, i suoi colpi di genio, il suo anticonformismo, le sue mattane, il suo modo brillante di esporre, quella scrittura limpida, di cristallo. A sua volta Indro apprezzava Mario, sapeva di poter contare su di lui, di potergli lasciare le briglie sul collo certo che tutto ciò che scriveva e scrisse montagne di pezzi sarebbe risultato rispettoso di quella conformità, di quella orchestrazione culturale e politica che era la cifra distintiva del Giornale e della quale solo Montanelli, il violino solista, poteva mutare il ritmo, quando non la partitura.

I loro rapporti restarono quelli fra buoni colleghi fino al ’79, quando fra i due si instaurò qualcosa di più, un sodalizio. Montanelli, troppo occupato col Giornale per continuare a mandare avanti da solo la sua Storia d’Italia, gli propose perché se ne fidava, appunto di affiancarlo («Io faccio un bozzone qui cito Montanelli - in cui, alla documentazione storica, cui provvede Cervi, aggiungo i miei personali ricordi. Poi lui scrive. Poi io rivedo la scrittura di Cervi aggiungendovi del mio, oltre alla prefazione e alla postfazione. E ne viene fuori il libro»). Il sodalizio andò avanti per diciotto anni e quattordici volumi, tutti best seller. Eppure senza che mai ci fosse uno screzio, un semplice malinteso, fra i due non si instaurò quella confidenza, quella familiarità, quell’affinità, se posso dire, che è fra persone strette da sentimenti di amicizia.

C’era ovviamente qualcosa d’altro e di forte se nel ’94 Mario non ebbe dubbi nel lasciare il Giornale per seguire Montanelli alla Voce e questo anche se consapevole, come in seguito ammise, di «fare la cosa sbagliata». Una esperienza breve un anno appena, tanto restò in edicola il quotidiano della quale Mario, quando poi tornò a Via Negri, preferiva non parlare. Ci vuole poco a capire come si fosse trovato a disagio, nella sguaiata Voce, giornale che nemmeno a Montanelli, che pure ne era il direttore, piaceva.

Quando tornò fra noi, ritrovammo il Mario Cervi di sempre. Affabile, pacato, cordiale e infaticabile al computer che proprio allora stava prendendo il posto della macchina da scrivere. Le uniche novità erano rappresentate da un nuovo Golia (o era una Gilda?) e dall’austerity che si era imposto sul fumo. Ora un toscano, scrupolosamente ghigliottinato in tre parti, se lo faceva bastare per l’intera giornata. Fino al giorno della maledetta caduta e conseguente rottura del femore, il Giornale non lo lasciò più, anche fisicamente. Seguitò a venirci ogni giorno, cogli anni, poi, almeno la mattina. Pronto a divorare la mazzetta o «fascetta», come lui aveva imparato a dire ai tempi del Corriere - pronto a scrivere se ce n’era bisogno. E siccome era un bisogno anche suo, non potendo nemmeno concepire di star troppo senza scrivere l’occasione se la trovò da sé aprendosi una quotidiana «Stanza» di colloqui con i lettori. Come suo dirimpettaio di pagina, ogni tanto si baruffava per esempio, riguardo al Meridione: lui era un risorgimentalista doc, con tutto ciò che significa. Io, il contrario ma sempre, il mattino dopo, arrivava la telefonata: «Sono Mario, mica te la sarai presa...». L’ultima volta l’ho sentito al telefono una decina di giorni fa. «Come va, Mario, com’è l’umore?». Mi rispose con una voce affaticata da mettere i brividi: «Bene... compatibilmente». Poi prese fiato e continuò: «Hai preparato il coccodrillo? Spetta a te, no?». «Beh, no, che dici, quale coccodrillo, cosa vai a pensare...». «Ma dài... trattami bene, non fare come Indro» (come è noto, fra le lodi e le eventuali lacrime, negli epicedi di Montanelli agli amici schioccava talvolta la frustata. Sempre la baia).

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Luigi Mascheroni per il Giornale

«Era la misura e l’eleganza»

Mario Cervi amava talmente il proprio mestiere che se per una qualche ragione si ritardava di un giorno la pubblicazione di un suo articolo, lui - uno che se gli chiedevi un pezzo alle 5 del pomeriggio alle 7 lo stava già dettando ai dimafoni, sempre perfetto - come un ragazzino alle prime armi, impaziente, ti chiedeva: «Ma quando esce?». E la cosa peggiore è che poi - lui che fu inviato del Corriere della sera, lui che lavorò con gente come Buzzati e Vergani, lui che fondò il Giornale - voleva sapere: «Andava bene?». Sì, direttore. Andavano sempre bene. Tutti quelli che hai scritto.

Capelli d’argento e penna che valeva oro, Mario Cervi diceva che il segreto di un buon editoriale, come sapeva benissimo Indro Montanelli, è la chiarezza. Per la quale, alla fine, troppe letture, troppi distinguo, troppe sottigliezze, sono un ostacolo. «Gli editoriali sono come i cento metri, devi farli d’un fiato: un’idea sola, precisa, che fila via per 60 righe, dove dici bianco o nero, senza sfumature, pro-e-contro. Altrimenti diventa un’analisi, o un racconto, che è un’altra cosa».

Troppo intelligente per cedere alle semplificazioni, troppo saggio per affidarsi alla rappresentazione d’una realtà sempre o bianca o nera, del tutto estraneo alle logiche di scontro tra «amici» e «nemici», Mario Cervi non era un buon editorialista. Se serviva, da grande professionista quale era, faceva anche quello, certo. E sempre più che egregiamente. Ma gli editoriali non erano - come si dice - il «suo». Il «suo» - giornalista di una capacità di scrittura direttamente proporzionale alle doti umane e osservatore di una esattezza che faceva il paio col suo equilibrio di giudizio - era piuttosto l’analisi, politica o storica, sempre misurata, sempre senza fanatismi, mai con l’arroganza di essere ogni volta dalla parte del giusto. E poi il racconto dei fatti, che lui visse come cronaca e che per noi sono Storia: i grandi processi del dopoguerra, l’alluvione del Polesine, la crisi di Suez, il golpe dei colonnelli in Grecia, quello di Pinochet in Cile, le luci e le ombre del craxismo, del berlusconismo, del renzismo...

Ecco, la sua bravura non era offrirti la certezza di una verità, o difendere un’idea forte. Ma raccontarti la parzialità di un evento o le debolezze di un pensiero «comune». Nel modo più discreto e nella forma più elegante possibile.

Uomo di pochi consigli e giornalista di parecchia finezza, Mario Cervi ha insegnato a una generazione di giornalisti - la mia - proprio queste due cose. La misura e l’eleganza. Quante volte, nei pomeriggi che passava dalla redazione - tutti i giorni, fino a questa estate, dalle 15 alle 18, per scrivere la sua Stanza - mi ha preso sotto il braccio, e mentre andavamo a bere il caffè, mi diceva: «Luigi, ho letto il tuo pezzo di oggi... Volevi stroncare il politico tale, l’intellettuale talaltro... Perché hai usato quell’aggettivo? Perché quella violenza? Non servono. Le stoccate migliori si tirano col fioretto e l’ironia. Non con le mazze ferrate e il sarcasmo».Virtuoso del fioretto e maestro di ironia, Mario Cervi era un signore. Abiti di taglio inglese di poche nuances e conoscenza dell’italiano in tutte le sue sfumature, non sbagliava mai un aggettivo, un giro di frase, un affondo. I suoi pezzi erano come lui. Arrivavano sempre nel momento appropriato, nel modo giusto. Si chiama classe.

Ci vuole classe, del resto, per stare una vita accanto a Montanelli, come «secondo», parlandone sempre, da amico, come «il primo» di tutti. Con Indro ha diviso migliaia di ore di lavoro, uno studio al terzo piano di via Negri, vent’anni di Giornale, dodici volumi della Storia d’Italia e la gloria di un binomio che ha fatto quella del giornalismo. E mai con un moto di invidia, una gelosia, una ripicca. Nessuno al Giornale, in tanti anni, ha mai sentito Cervi parlare meno che in toni apologetici di Indro, sia dal punto di vista professionale, e questo è ovvio, sia umano, e questo un po’ meno. Si chiama stile.«Tra le mie fortune c’è quella che Montanelli è morto prima di me, così non mi ha fatto il coccodrillo, perché i suoi erano letali», mi ha detto una volta scherzando. Un’altra, invece, molto serio, è venuto alla mia scrivania, gli avevo fatto i complimenti per il pezzo su Dan Segre, morto il giorno prima, e mi disse: «Chissà se in qualche cassetto del palazzo c’è anche il mio di coccodrillo...». «Non credo che qualcuno si permetta», gli risposi con imbarazzo. «A ogni modo - chiuse il discorso - preferirei non leggerlo». Anch’io avrei preferito non scriverlo.

Per il resto, ricorderò Cervi come il direttore che mi ha sempre parlato alla pari, nonostante la distanza degli anni e del talento, e che mi ha insegnato il senso di questo mestiere. Che è l’unica cosa che vale.

Conoscerlo è stato un privilegio. Lavorare con lui, una lezione indimenticabile.

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Gian Galeazzo Biazzi Vergani per il Giornale

«Appassionato di Bridge, amante delle auto e vero esperto di tennis»

Scrivo con grande tristezza per la morte di Mario Cervi, al quale mi legava una colleganza di mezzo secolo, al Corriere prima ed ora al Giornale, e un’amicizia molto stretta e fervida.

Se devo trovare un termine che in qualche modo riassuma la sua personalità, direi: coerenza. Mario era molto fermo nelle sue idee sull’onestà e sulla moralità nella vita pubblica. I suoi ideali erano gli italiani che avevano creato l’Italia, da Mazzini a Cavour, da Di Rudinì a Giolitti. Al punto che non esitò a polemizzare con alcuni lettori che avevano valorizzato, e in un certo qual senso rimpianto, il Regno delle Due Sicilie.

Dotato di ottima cultura generale, era imbattibile sul periodo storico tra la prima e la seconda guerra mondiale. Se avevi bisogno di ricordare una data, un generale, un nome di una battaglia, di un ponte, di un lago, lui lo conosceva e ti illustrava tutti i particolari necessari.

Eccellente giornalista e scrittore, la sua laurea in giurisprudenza lo aiutava a mantenere sempre il giusto equilibrio al punto che praticamente mai fu colpito da querele.

La sua Storia della guerra di Grecia, tradotto in varie lingue straniere, è ancora oggi un esempio storico, un vero piccolo capolavoro.

Padrone di diverse lingue, si muoveva con disinvoltura in Europa ed in ogni parte del mondo: aveva una conoscenza profonda di molti Stati, e in particolare della Grecia, della Spagna, della Polonia e del Cile.

Fra le tante qualità che lo rendevano prezioso per ogni Direttore, aveva anche quella di essere velocissimo nello scrivere.

In più occasioni alle otto di sera, mentre era a tavola a desinare, il Giornale lo chiamava per un commento, e riceveva l’articolo in tempi stretti così da non perdere le partenze dei treni e degli aerei.

Quando da condirettore concordavo con lui un articolo, poco dopo me lo ritrovavo accanto. L’articolo lo aveva già consegnato al giornalista che lo aspettava. Di giornalisti altrettanto veloci ne ricordo solo due: Cesare Zappulli e Giovanni Spadolini, ex direttore del Corriere della sera.

Aveva ancora, nonostante l’età avanzata, alcune vive passioni giovanili: il bridge, ad esempio, che giocava da bravo dilettante con grande piacere. Era poi molto curioso delle automobili, dei nuovi modelli, e delle cilindrate e ne discuteva con competenza con gli autisti alla guida. Infine era un vero esperto del tennis: sempre al corrente dei giocatori più bravi e più avanti nelle classifiche e dei risultati dei tornei più importanti.

La sua scomparsa è un lutto grave per il Giornale del quale era una delle colonne, prezioso per la varietà delle conoscenze e delle competenze e dove era da tutti benvoluto e stimato. È stato per un certo periodo condirettore con una guida sicura, equilibrata e competente.

La sua scomparsa è un lutto non solo per il Giornale, ma anche per l’intero giornalismo italiano, dove Cervi aveva un posto di grande rilievo per le sue doti di giornalista, di scrittore, e per la sua personalità di galantuomo dalla condotta irreprensibile.

Era anche un ottimo oratore e veniva chiamato in varie città d’Italia, per incontri o per ricorrenze, sempre pronto in ogni circostanza.

Lo rimpiangerò, lo rimpiangeremo a lungo, consapevoli che difficilmente riapparirà nella nostra professione un protagonista della sua levatura, professionale e morale.

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Vittorio Feltri per il Giornale

«La sua forza era la modestia»

Mario Cervi ha deposto la penna, non scriverà più, questo è il guaio, e non potremo più leggerlo sul suo e nostro Giornale. Suo perché lui lo ha fondato insieme con un gruppo di fuoriclasse capitanato da Indro Montanelli, il Papa dei giornalisti italiani. Non scriverà più perché è morto mentre si avvicinava al compimento dei 95 anni. Tanti, ma insufficienti a togliergli la lucidità e la voglia di scrivere articoli impeccabili, i migliori che trovassero adeguata ospitalità su queste colonne, da taluni giudicate infami fin dal primo giorno della loro pubblicazione. Era il 25 giugno 1974, un anno orribile quanto i tre o quattro precedenti, duranti i quali la sinistra violenta, il Partito comunista armato, si organizzò con lo scopo di rovesciare l’ordine costituito.

I rivoluzionari rossi diventarono di moda in poco tempo, e non c’è niente di più efficace della moda per ottundere le menti. Le teorie marxiste si propagarono con la velocità di una perniciosa epidemia. Ne fu contagiato anche il Corriere della Sera, un nido di talenti, cosicché Montanelli fu scortesemente licenziato in quanto considerato non omogeneo al progetto di Giulia Maria Crespi, la padrona delle rotative, affidato a Piero Ottone per la realizzazione. Fuori dal Palazzo di via Solferino, Indro pensò subito di dar vita a un proprio quotidiano alternativo a quello da cui era stato cacciato. Ne fu capace, reclutando le firme insigni disponibili a seguirlo in una impresa che pareva velleitaria, tra cui il raffinato Enzo Bettiza e, appunto, Mario Cervi, già ultracinquantenne, inviato di vaglia ma non ancora assurto all’empireo degli scribi.

L’esordio del Giornale fu accompagnato da un coro di pernacchi. La critica più benevola rivolta alla redazione fu: «Un branco di fascisti». Fascisti all’epoca era un insulto ricorrente. In seguito, il termine, intriso di disprezzo, fu sostituito da qualunquisti. Oggi i kretini di sinistra per offendere gli avversari usano a sproposito una parola magica, capace di zittire chiunque: populisti. Essi ignorano che il populismo fu il padre del comunismo, ma questi sono dettagli. Ciò che conta è altro. Il Giornale con Indro al timone vinse la propria battaglia contro il conformismo, anticipando puntualmente le topiche cui sarebbero andati incontro i borghesucci in eskimo: sgominata Prima Linea, decimate le Brigate rosse, annientati i bulli del Sessantotto, quelli dei cortei in cui i poliziotti erano picchiati, quelli che occupavano le università pretendendo il presalario e il 26 politico indispensabile per ottenerlo. Tutta robaccia spazzata via soprattutto per merito del Giornale che contribuì in modo decisivo a risvegliare le coscienze.

Questa non è un’opinione, bensì la foto della realtà di allora. Mario Cervi fu uno dei principali protagonisti della riscossa, un paladino della ragionevolezza che pareva perduta per sempre. In pratica, egli fu l’alter ego di Montanelli, il suo braccio esecutivo. Scrisse migliaia di articoli per il suo direttore, che li firmava dopo aver aggiunto qualche toscanismo e cancellato un paio di incisi, conferendo alla prosa un tocco della propria genialità. Ma il prodotto non era di Indro, bensì di Mario, un fenomeno anche in tarda età, tant’è che noi, quando eravamo in difficoltà ad affrontare un argomento, gli chiedevamo soccorso. Lui ci ascoltava in silenzio, senza prendere appunti, e mezz’ora più tardi inviava un pezzo perfetto, al quale non si doveva modificare una virgola. Era stupefacente la sua abilità nello spaziare da un campo all’altro dello scibile giornalistico: nessuna esitazione, nessuno sbandamento, nessuna imprecisione.

Egli aveva una memoria prodigiosa che lo ha assistito sino all’ultimo giorno, vissuto in buona salute e col desiderio di non farci mancare il suo apporto di alta qualità. La vita di Mario è ricca di episodi che meriterebbero di essere ricordati. Spesso raccontava la sua esperienza di sottotenente nella guerra che avrebbe dovuto, nei sogni mussoliniani, spezzare le reni alla Grecia, e che invece sfociò in un disastro; i nostri militari fraternizzarono con gli ellenici con cui si opposero ai tedeschi. Cervi fu salvato da una famiglia greca, nella quale trovò la donna ideale, Dina, che poi sposò e che gli rimase al fianco fino a otto anni orsono, allorché morì provocando nel marito una prostrazione da cui faticosamente, e parzialmente, si risollevò grazie alla figlia e al lavoro.

Già. Il lavoro era ciò che gli dava la forza di tirare avanti, nonostante qualche acciacco. Un aneddoto. Nel dicembre del 1997, lasciai per stanchezza la direzione del Giornale (che avevo avuto in eredità da Montanelli) e la proprietà non sapeva con chi sostituirmi. Fui io, su suggerimento di Stefano Lorenzetto, a buttare lì il nome di Cervi, il più anziano, il più bravo di tutti noi. Il mio consiglio su accolto con entusiasmo da Paolo Berlusconi che non esitò a convocare Mario e a investirlo della carica di direttore responsabile. Lui accettò per spirito di servizio e assunse l’incarico prodigandosi da par suo. Ossia scrivendo fondi mai banali, puntuali, privi di sbavature, eleganti.

L’uomo era così, schivo e gentile, incline alla riservatezza. Non si è mai dato arie benché avesse motivi per darsene molte. Una sera fui invitato da Indro in casa sua per una cena, in viale Piave, e a noi si aggiunse Cervi. Seguì una lunga chiacchierata, durante la quale appresi con stupore che i famosi libri di storia (una dozzina) firmati da entrambi i giornalisti furono scritti non a quattro mani, ma a due soltanto, quelle di Mario, la cui prosa limpida e scorrevole non tradì mai quella del maestro, che si limitava a vergare la prefazione o la postfazione con inimitabile stile, analogo a quello del valente collega. Cervi adorava Indro e lo servì con devozione senza vantarsene e senza mai rivendicare di essere stato artefice di successi editoriali strabilianti, attribuiti quasi esclusivamente all’indimenticabile direttore del Giornale. Chiunque al posto suo avrebbe suonato la tromba per attirare l’attenzione su di sé. Lui è stato zitto e si è consumato le dita picchiettando sulla tastiera, e quando ha dovuto smettere per la frattura del femore, ha preferito abbandonarci.

Noi abbiamo perso un punto di riferimento, non solo un grande giornalista, ma anche una persona per bene di rara probità. Sapendo che egli era infastidito dalla retorica, mi guardo dal dare la stura al piagnisteo. Se proprio dovrò lacrimare, lo farò stanotte, di nascosto. Qui al Giornale non c’è un vuoto, ma una voragine.


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Maurizio Belpietro su Libero

 Mario Cervi era innanzi tutto un galantuomo. Prima che uno straordinario giornalista, un brillante scrittore, uno storico appassionato, l’ex direttore de il Giornale, morto ieri a 94 anni, era una persona per bene. Fino al 1997 lo conoscevo poco e quel poco lo dovevo agli articoli pubblicati sul quotidiano di via Negri. Ma nel dicembre di diciotto anni fa, quando mi fu proposto di dirigere la testata della famiglia Berlusconi, mi trovai casualmente associato a lui nell’avventura. Il merito fu di Amedeo Massari, un toscanaccio che era il consigliere più ascoltato del Cavaliere nel settore stampa. Secondo lui io ero il solo a poter prendere il timone de il Giornale dopo le dimissioni di Vittorio Feltri, ma avevo 38 anni e pur essendone già stato il condirettore, l’editore riteneva che fossi troppo giovane per dirigere una testata tanto prestigiosa. Pretendeva di avere in gerenza un nome noto, che ricordasse ai lettori la figura di Indro Montanelli e ne garantisse la continuità. Voleva insomma una specie di direttore bandiera, che non si occupasse della macchina, affidata a me, ma che scrivesse gli editoriali. Non so chi abbia fatto il nome di Cervi: Vittorio Feltri se ne attribuisce il merito, Stefano Lorenzetto, che del Giornale fu vicedirettore vicario, anche.

Sta di fatto che una mattina, Massari mi chiamò e mi disse: ti sta bene Mario Cervi? La mia risposta fu subito sì, anche se in principio guardai la convivenza con scetticismo, temendo che due direttori, l’uno responsabile e l’altro operativo, si sarebbero pestati i calli: come è noto, troppi galli in un solo pollaio finiscono per beccarsi. Invece l’avventura andò a meraviglia e il merito fu di gran lunga di Mario, il quale si comportò da quel signore che era. Del resto, con la sua storia e un nome ormai affermato, non aveva bisogno di quell’incarico per farsi notare e dunque non sgomitò una sola volta reclamando spazio. Fu un direttore articolista, oltre che destinatario di querele, come lui stesso con una certa ironia si definì. I suoi articoli però ogni volta erano capolavori, anche se commissionati a fine giornata, con la fretta della chiusura dettata dalla tipografia. A lui veniva facile scrivere di qualsiasi argomento, forse perché nell’arco di una vita che ormai si approssimava agli ottanta si era già occupato di qualsiasi argomento.

Entrato al Corriere della Sera subito dopo la guerra (che da sottotenente lo aveva visto combattere in Grecia, dove conobbe la moglie), Cervi da inviato ha fatto in tempo a vedere guerre e colpi di Stato, grandi delitti e tremendi disastri. Dopo gli esordi da reporter, uno di quelli che raccoglievano notizie dalle questure, dai carabinieri e dagli ospedali, Mario passò a occuparsi di cronaca nera, in particolare dei processi più eclatanti. Fu lui a seguire il dibattimento contro Rina Fort, la donna che nel dopoguerra ammazzò la moglie e i tre figli dell’amante. Sempre lui a registrare gli sviluppi del caso di Wilma Montesi, la ragazza trovata morta su una spiaggia che divenne occasione per uno scandalo politico, del delitto Fenaroli. Nel 1951 il Corriere lo mandò in Polesine, quando il Po ruppe gli argini costringendo migliaia di persone alla fuga, e più tardi, essendo in Pakistan per vedere una diga da poco costruita, fu uno dei pochi giornalisti italiani a raccontare il disastro del Bangladesh, dove un maremoto fece centinaia di migliaia di morti.

Nel 1956 fu invece spedito in Israele, durante la crisi di Suez, quando Francia, Gran Bretagna e Israele occuparono militarmente il canale e si rischiò un conflitto mondiale che solo un accordo tra America e Urss scongiurò. Per il resto, Mario fu abbonato a tutti i principali colpi di Stato del secolo scorso. Nel 1967 divenne testimone di quello in Grecia, ad opera dei Colonnelli. Nel 1973 fu uno dei pochissimi inviati italiani che seguì il golpe contro Salvator Allende e la sua Allenza Popolare e nel 1974 fece in tempo ad assistere alla Rivoluzione dei garofani, in Portogallo, quando i militari deposero il dittatore Salazar. Quello fu anche l’anno in cui Mario lasciò il Corriere, il quotidiano dove professionalmente era nato e dove aveva lavorato per quasi trent’anni. Insieme con Montanelli, Gianni Granzotto, Guido Piovene, Enzo Bettiza e tanti altri diede vita a il Giornale, una voce che non aveva intenzione di unirsi al coro del Sessantotto, cui grazie al direttore Piero Ottone e all’editore Giulia Maria Crespi anche la prestigiosa testata di via Solferino si era adeguata.

Per Cervi fu l’inizio di una seconda vita, per lo meno dal punto di vista giornalistico. Meno viaggi in giro per il mondo, ma più libri. È dal 1974 in poi infatti che stringe un rapporto intenso con Montanelli, divenendo l’estensore dei suoi libri. La storia d’Italia, a cominciare da quella Littoria, è sua, mentre Indro si limitava alla prefazione e ad alcune lapidarie battute. Del grande Cilindro non aveva la brillantezza e forse neppure la sferzante cattiveria, ma molti dei controcorrente attribuiti al fondatore del giornale in realtà erano suoi, anche se lui non ne ha mai rivendicato la paternità.

Di suo mi piace ricordare la modestia e un certo ironico distacco, come quando nel risvolto di copertina della biografia a lui dedicata fece scrivere: «Non aspiro alla qualifica di giornalista scomodo, un po’ per non esserlo davvero stato, un po’ perché l’aggettivo scomodo ormai imperversa. C’è il comunista scomodo, il critico scomodo, il regista scomodo, il ministro scomodo: tutti ben sistemati, di solito, in poltrone comodissime».

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Gennaro Sangiuliano sul Sole 24 Ore

Mario Cervi (morto ieri all’età di 94 anni) era una sorta di alter ego di Indro Montanelli, non solo per la lunga collaborazione nelle redazioni e nei libri scritti insieme, ma soprattutto nel carattere che ne completava il sodalizio. Ironico, effervescente, pungente Montanelli, trovava un forte sostegno nel riflessivo, acuto, culturalmente solido Cervi. «Garbatissimo, sempre molto gentile e composto», lo ricorda Roberto Gervaso.
Se Montanelli amava definirsi come Prezzolini un «anarchico conservatore», Mario Cervi era un “liberale conservatore”, essenza di quella borghesia operosa e concreta che aveva costruito il benessere italiano. Nato a Crema nel 1921, apparteneva a quella generazione di giornalisti che aveva fatto la guerra, in Grecia, come ufficiale di fanteria, finendo poi prigioniero dei tedeschi dopo lo sfascio dell’8 settembre del 1943. La nazione ellenica sarebbe diventata una della sue passioni, sposa una donna greca e alla Grecia avrebbe dedicato uno dei suoi primi libri Storia della guerra di Grecia, seguendo sul campo successivamente, nel 1967, le drammatiche vicende legate al golpe dei colonnelli.
Il suo è un giornalismo puntuale, vecchia maniera, costruito sui fatti e non sulle congetture, pronto ad ascoltare, a registrare e solo dopo scrivere. Inizia al Corriere della Sera nell’immediato dopoguerra come cronista giudiziario. Il padre pellicciaio conosceva uno stenografo del quotidiano di via Solferino, Umberto Frisoni, al quale parla della passione del figlio per il giornalismo. Mario Missiroli ne intuisce le capacità e ne aiuta la crescita professionale. Racconta processi importanti, il rigore dei suoi articoli gli vale la promozione a inviato speciale quando in un’epoca con poca tv e senza internet il racconto dei fatti del mondo è affidato agli occhi e alla scrittura di chi è testimone diretto. Prima di diventare inviato ricopre un altro ruolo, quello dell’estensore, figura di cui sui è persa memoria nelle redazioni dei giornali. Doveva trasferire in italiano corretto e sensato le notizie che i cronisti di nera trasmettevano confusamente via telefono al giornale.
Mario Cervi è a Suez nel 1956, durante il blitz anglo-francese, ad Atene durante il golpe ed uno dei tre giornalisti italiani presenti a Santiago, la capitale del Cile, il giorno dell’attacco alla Moneda, il palazzo presidenziale dove perde la vita, per mano dei golpisti, Salvator Allende. Nel novembre del 1970 era stato in Bangladesh per seguire il catastrofico maremoto che aveva devastato il delta del gange provocando 300mila morti.
Nel 1974 Mario Cervi è una delle teste di quel manipolo di giornalisti che, guidato da Indro Montanelli, decide di abbandonare il Corriere per fondare Il Giornale. Ne fanno parte Enzo Bettizza, Egisto Corradi, Cesare Zappulli, Egidio Sterpa, giudicano la linea di via Solferino troppo ammiccante verso la sinistra e troppo cedevole rispetto alle pulsioni del Sessantotto. Vogliono un nuovo quotidiano liberal conservatore, sono personalmente coraggiosi perché abbandonano tutti salde posizioni professionali per un avventura che poi si rivelerà vincente. Del Giornale lo stesso Cervi sarà direttore dal 1997 al 2001.
Mario Cervi, accanto al giornalismo, lega il suo nome ad un’intensa attività di saggista, oltre trenta libri, quasi tutti di storia, fra cui una lunga Storia d’Italia, in tredici volumi, scritta a quattro mani con Indro Montanelli, il primo L’Italia littoria, gli ultimi L’Italia di Berlusconi e L’Italia dell’Ulivo, cui seguirà una riflessione complessiva L’Italia del Novecento. Anche questa è un’impresa controcorrente, perché la volontà dei due giornalisti è quella di offrire ai loro lettori una parabola chiara e diversa dalla vulgata dominante della vicenda nazionale. Se si può individuare una linea di pensiero e stile giornalistico a cui Cervi appartiene, questa è quella che muove da Prezzolini e attraversa Longanesi, Missiroli, Montanelli, Gervaso, Feltri, dove lo scetticismo, secondo quanto afferma Thomas Mann, è l’essenza del conservatorismo. «Uno dei grandi gentiluomini del giornalismo italiano», ribadisce Roberto Gervaso, «un seme che non si trova più».