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 2015  novembre 18 Mercoledì calendario

La paura di Parigi

DAL NOSTRO INVIATO
PARIGI «Buongiorno signorina, dalla mia finestra vedo dei soldati in strada. Secondo lei posso uscire a fare la spesa?». Anne Clichot risponde con voce rassicurante, ma certo signora, non c’è nessun pericolo. Quando riattacca si toglie le cuffie, stacca la spina della sua cabina per qualche istante e guarda fisso l’interlocutore. «Ne siamo davvero certi?».
Il 3975 non è soltanto un numero utile, ma una istituzione, una specie di vecchio amico del quale essere orgogliosi. I parigini lo chiamano per qualunque esigenza, dagli orari di un ufficio amministrativo ai giorni di mercato fino agli indirizzi dei locali notturni. I suoi uffici sono al pianterreno dell’Hotel de Ville e in un palazzo dall’altra parte della Senna dove si trova la sede operativa nella quale lavorano 420 centralinisti. «È cominciata sabato mattina, al risveglio dopo la strage». Chiamavano tutti, in cerca di una voce rassicurante, che dicesse va tutto bene, è stato terribile ma ora è finita. Allora il direttore Vincent Morel ha chiesto al Comune, dal quale dipende il servizio, di mettere all’ascolto una ventina di psicologi, che trovassero loro le parole giuste, quelle che le ragazze a contratto part time che si danno il turno ogni sei ore non sono in grado di trovare.
La vita continua, si dice sempre così dopo ogni disastro. Ma ricominciare davvero è cosa diversa da un luogo comune buono per tutte le occasioni, in un Paese dove il presidente si dichiara in guerra, per tre mesi si vivrà in stato d’emergenza e dove le autorità avvisano che succederà ancora. La domanda più frequente che rimbalza dal centralino del 3975 non riguarda il quando, ma il dove. «A gennaio non fu così» dice Anne. «Non cambiò nulla nella nostra routine». La strage di Charlie Hebdo e all’Hypercacher furono vissute come un episodio circolare, aperto e chiuso nel giro di due giorni. Adesso è tutto diverso, è come se il tradizionale orgoglio dei parigini fosse minato dalla perdita di ogni certezza.
Alla fermata di Chemin Vert la metropolitana sta per ripartire. Le porte sono quasi richiuse quando un uomo in jeans e giaccone entra con il fiatone dopo la corsa sulla banchina. Le persone sedute lo guardano per un istante e si rimettono a compulsare i loro telefonini. Alcuni studenti stanno in piedi. L’uomo sospira e getta a terra il suo zaino. Il rumore è metallico. Quasi tutti passeggeri nel vagone si girano di colpo. «Scusate, il computer...». La stazione di Chatelet è il più grande snodo parigino, dove si incrociano i treni a lunga percorrenza e le linee urbane, un labirinto sotterraneo simile a un formicaio, sempre percorso da una folla che va di fretta in ogni possibile direzione. «Atmosfera lugubre» dice dal suo gabbiotto Yves, l’addetto alle informazioni. «Dicono che bisogna sopportare il male con pazienza. Speriamo che abbiano ragione».
La paura che scorre sotto una patina di calma apparente si legge anche nei numeri. Lunedì, primo giorno feriale dopo la strage, gli ingressi in metropolitana sono diminuiti del 38 per cento. Nel pomeriggio non c’è stato il consueto traffico di genitori che dal centro portano i bambini verso le loro attività nei campi e nelle palestre della periferia. Al Puc, il centro sportivo della città universitaria accanto allo stadio di Charlety, le luci erano spente. Su dodici campi da tennis ce n’era uno solo occupato. La pista di atletica era vuota. «Bisogna imparare a convivere con la paura» ripetono come un mantra gli psicologi del 3975.
Quando il fulmine cade due volte nello stesso punto, nella stessa città, le parole hanno bisogno di fatti che al momento nessuno è in grado di produrre. Parigi sta vivendo una precarietà che mai aveva affrontato nella sua storia recente. I primi a respirarla sono i turisti, che da sempre fungono da canarino nella miniera. Nella notte di sabato la percentuale di camere occupate negli hotel cittadini è scesa del 21 per cento. Domenica, giù di un altro 23% nonostante l’associazione degli albergatori avesse cercato di mettere un tappo abbassando le tariffe di almeno un quinto rispetto ai prezzi normali. Alle 13.55 Anne ha quasi finito il suo turno, ancora cinque minuti e uscirà per prendere la metrò, diretta all’università di Nanterre, dove studia.
Arriva l’ultima chiamata. «Un giorno torneremo a sentirci davvero sicuri?». È una risposta che nessuno può dare. Neppure uno psicologo.