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 2011  marzo 31 Giovedì calendario

Mario Cervi ricorda i suoi primi 90 anni

Il braccio destro (e anche sinistro) di Indro Montanelli compie 90 anni il 25 marzo. L’amico più caro se ne andò a 92, il 22 luglio 2001. Qui, insieme con gli arti superiori, ci resta il meglio: la testa di Mario Cervi. Tuttora lucidissima, come può constatare chiunque legga i suoi editoriali sulla prima pagina del Giornale. I due hanno condiviso il primo amore (Corriere della sera), le fughe (Il Giornale e La Voce), le idee, i libri e la passione per i telefilm dell’ispettore Derrick, che, foss’anche caduto il governo, guardavano insieme ogni sera in redazione. Ma i 13 volumi della Storia d’Italia, ufficialmente scritti a quattro mani, erano tutti farina del sacco di Cervi, su questo non ci piove. A parte prefazioni e postfazioni.
Del Giornale fondato da Montanelli nel 1974, Cervi, originario di Crema, fu a sua volta direttore dal 1997 al 2001. Si dimise il giorno del suo 80° compleanno, dimostrando d’essere un uomo capace di dirigere innanzitutto se stesso. Fino al 2003, prima di subire il trapianto della valvola aortica, d’estate ogni mattina raggiungeva a nuoto il motoscafo ormeggiato davanti alla sua casa di vacanza in Grecia, a una ventina di chilometri da Volos, e poi faceva sci nautico.
Cervi conobbe sull’Egeo la moglie Dina Ciamandani, che lo ha lasciato solo da tre anni e tre mesi. Ufficiale di fanteria, aveva col suo plotone la responsabilità di un piccolo presidio a mare. Una delle tante vicende della cosiddetta «armata s’agapò» («ti amo», in greco), simile a quella raccontata da Mediterraneo. «Di proposito non ho visto il film del regista Gabriele Salvatores. Avrei provato troppa tenerezza e insieme troppa tristezza».
Oltre che nel lavoro, oggi il famoso giornalista trova conforto, «so che è banale dirlo», nella famiglia: «Sono diventato bisnonno di Andrea». E anche in Stella, una gatta comune europea, e nei barboncini Gilda e Golia. Ha perso il conto di quanti ne ha avuti, sempre in coppia: questo dovrebbe essere Golia IV o Golia V. «Temo che Gilda, diciottenne e malconcia, mi precederà nell’addio, anche se preferirei il contrario».
Cervi mi chiama l’Oracolo, perché gli predissi la nomina a direttore del Giornale con nove ore d’anticipo. Avendola suggerita all’editore, confesso che il vaticinio mi venne facile.
In che anno sei diventato giornalista?
Nel 1945.
Sul crinale dei 90 anni Giorgio Bocca ti ha preceduto di sette mesi. Siete i due decani del giornalismo italiano.
Quando eravamo giovani, io al Corriere, lui alla Gazzetta del popolo di Torino, abbiamo condiviso tanti fattacci. Nel novembre del 1970 ci ritrovammo a seguire il catastrofico maremoto che devastò il delta del Gange, nel Bangladesh, più di 300 mila morti. Insieme a Sandro Viola avevo noleggiato un barcone per raggiungere l’Isola di Bhola: la trovammo tappezzata di cadaveri. Con il Bocca politicizzato ho preferito non polemizzare molto. Tra vecchi ci si rispetta.
Il terzo senatore è Eugenio Scalfari, 87 anni fra pochi giorni, che ti dà del lei perché hai osato punzecchiarlo per gli svarioni contenuti nel suo libro «La sera andavamo in via Veneto».
Ho ammirato la capacità di Scalfari come direttore. Mi sono sempre annoiato, ma dev’essere colpa della mia pochezza culturale, leggendo le sue articolesse.
Come arrivasti al giornalismo?
Per raccomandazione.
Finalmente uno che lo ammette.
Ero appena tornato dalla guerra di Grecia. Mio padre, pellicciaio come mia madre, aveva un amico stenografo al Corriere, Umberto Frisoni. Il giornale cercava giovani cronisti. Frisoni ci mise una buona parola.
Primo incarico?
Il giro dei commissariati. Allora la categoria era suddivisa in reporter ed estensori. Il reporter poteva anche essere analfabeta, importava solo che scovasse le notizie. Provvedeva l’estensore a scriverle in buon italiano. In breve tempo fui promosso prima estensore e poi inviatino.
Inviatino?
Mi affidavano i servizi rifiutati dagli inviati di grido, che erano Indro Montanelli, Orio Vergani, Enrico Emanuelli, Max David, Dino Buzzati.
Buzzati, un genio ribattezzato «cretinetti» dai colleghi.
Quando lo conobbi, era confinato a compilare a mano l’agenda del giorno in cronaca. Pensa che gabbie di matti sono i giornali. A Eugenio Montale appena assunto accadde di peggio. Il poeta portò un suo elzeviro a Guglielmo Emanuel. Il direttore lesse e commentò: «Non ho capito niente». E gettò nel cestino il dattiloscritto del futuro premio Nobel per la letteratura, ti rendi conto?
I colleghi all’inizio prendevano in giro anche te perché ti occupavi di «Lascia o raddoppia?» con brevi corsivi.
Sì, consideravano degradante recensire un telequiz. Nel 1956 scoppiò la crisi di Suez e il Corriere mi mandò a seguire la guerra arabo-israeliana. Al mio ritorno gli amici intellettuali mi chiesero: «Mario, ma sei stato in vacanza? Non abbiamo più visto niente di tuo». Capito quanto sono distanti i giornalisti dal loro pubblico? Tutti seguivano la rubrica su Mike Bongiorno, nessuno aveva letto i miei quotidiani reportage dal Medio Oriente in prima pagina.
Il tuo scoop più grande?
Non è mai uscito. Nel 1973 a Santiago del Cile alloggiavo all’hotel Carrera, proprio dinanzi al palazzo della Moneda, dov’era asserragliato il presidente Salvador Allende, circondato dai carri armati del generale Augusto Pinochet. Le comunicazioni col resto del mondo erano interrotte. Alle 18, mezzanotte in Italia, una delle centraliniste m’avvertì che aveva a disposizione per pochi minuti una linea. M’attaccai al telefono e dettai a braccio il golpe in diretta. Ma al ritorno in Italia scoprii che la seconda edizione quella notte non era uscita. I tipografi non l’avevano stampata perché il direttore Piero Ottone s’era rifiutato di pubblicare un loro comunicato contro il colpo di Stato. Pretendevano la prima pagina. E siccome Ottone gli offriva pagina 2, erano scesi in sciopero.
Fondasti «Il Giornale» con Montanelli in opposizione alla linea sinistrorsa impressa da Ottone al «Corriere». Qual è l’emozione più forte rimasta nella tua memoria di quel periodo?
L’attentato delle Brigate rosse a Indro, del quale Ottone tacque il cognome nel titolo di prima pagina. Angosciato com’ero, dovetti correre nello stambugio di Porta Ticinese dove registravamo i nostri commenti per Telemontecarlo, che era diventata l’anti Rai. Dissero poi a Montanelli, e lui lo annotò nei suoi diari, che la mia commozione era evidente.
Ottone, in una lettera che ti ha scritto, ha accusato Montanelli di slealtà, per il fatto di non avergli detto a viso aperto che la sua direzione non gli piaceva. Possibile?
Impossibile.
Silvio Berlusconi ha mai messo becco in quello che facevi e scrivevi da direttore e da editorialista del «Giornale»?
Mai.
Che rapporto hai con lui?
Non appartengo al suo inner circle. Ma ricordo con affetto e rimpianto il Berlusconi prepolitico, allegro, vitale, espansivo, generoso, e non dimentico mai che senza di lui il giornale in cui tuttora lavoro sarebbe morto da tempo.
Il Cavaliere voleva bene a Montanelli?
Lo adorava. Una volta lo invitò a visitare l’imponente mausoleo dello scultore Pietro Cascella nel parco di Arcore, destinato a tomba di famiglia dei Berlusconi, e gli disse: «Vedi, Indro, qui ci sono già i posti pronti anche per Fedele Confalonieri, per Gianni Letta e, se vorrai concedermi questo onore, anche per te». Fu lo stesso Indro a raccontarmelo.
Su che cosa avvenne secondo te la rottura fra Montanelli e Berlusconi?
Sul dilemma che Montanelli, nella consapevolezza del suo rango o nella sua presunzione, dipende dai punti di  vista, aveva posto a Berlusconi e a se stesso: «Quando sarai entrato in politica, se io ti appoggerò sarò un servo e se ti contrasterò sarò un ingrato».
Non credi invece che Montanelli in realtà non abbia mai perdonato a Berlusconi d’avergli rubato il proscenio? Il Cavaliere prese il suo posto non solo come interlocutore dei politici ma addirittura come soggetto politico.
Penso proprio che in questa tua diagnosi ci sia della verità. Come Enrico De Nicola, Indro aveva una certa ritrosia per il proscenio. Ma se un altro glielo scippava, s’arrabbiava molto.
Perché lasciasti «Il Giornale» per andare alla «Voce»?
Per affetto verso Indro.
E perché ritornasti al «Giornale»?
Perché m’accorsi d’avere sbagliato. Lo dissi a Indro: questi non sono i miei lettori e io non sono il loro giornalista. E passai al Resto del Carlino. Fu Vittorio Feltri a offrirmi di rientrare al Giornale. Telefonai a Montanelli per un consiglio. Lui mi disse: «Torna pure. Sarà come se tornassi un po’ anch’io».
Ritieni che il presidente del Consiglio sia perseguitato dai pm?
Ritengo che sia stato oggetto di accanimento giudiziario. Ma non penso che la persecuzione subita da Berlusconi sia la peggiore mai vista al mondo. L’uomo più ricco della Russia, Mikhail Khodorkhovsky, l’ex proprietario del colosso petrolifero Yukos preso di mira da Vladimir Putin, sta in galera dal 2005 e non uscirà prima del 2019. I garantismi italiani funzionano meglio di quelli russi o bielorussi.
Un magistrato di sinistra, inchinandosi alla tua competenza giudiziaria, mi ha confessato: «Per noi Cervi è come la Cassazione». Ti preoccupa o t’inorgoglisce?
Ringrazio il magistrato, ma dopo certe sentenze della Cassazione l’esserle equiparato non è propriamente un complimento.
Dimmi il nome di un giudice da cui ti faresti processare in assoluta serenità.
Posso farti il nome d’un magistrato, ora ex, dal quale mai avrei voluto essere processato: Antonio Di Pietro.
Perché hai difeso il criminale nazista Erich Priebke?
Per un semplice motivo: nel processo del 1948 contro Herbert Kappler, il comandante delle SS romane condannato all’ergastolo per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, Priebke non fu giudicato perché irreperibile e tutti i subordinati di Kappler in quell’occasione vennero prosciolti per avere eseguito ordini superiori. Dopo mezzo secolo la nostra giustizia, che non ha punito nessun ufficiale italiano per le rappresaglie nei Balcani, ha voluto accanirsi contro un vecchio che nel 1948 sarebbe stato assolto. Ho orrore per la carneficina delle Ardeatine come per i crimini degli anni di piombo, ma tra un Priebke cresciuto e allevato nell’atmosfera allucinata del fanatismo hitleriano, impegnato in una guerra spaventosa che massacra gli ostaggi, e i terroristi che, vivendo in democrazia e senza essere soggetti a lavaggi del cervello, sparano alla nuca di persone indifese, mi sembrano peggiori i terroristi.
Priebke ti ha mai ringraziato?
Sì, però io non gli ho risposto. Lo ritengo un boia vittima di un’ingiustizia, ma pur sempre un boia.
Qual è stato il direttore che ti ha voluto più bene?
Mario Missiroli. Aveva un difetto: detestava le notizie. Egisto Corradi fu inviato a Verona a seguire lo scandalo di una contessa scappata col suo chauffeur. Missiroli chiese a Corradi: «Senta, ma non si potrebbe omettere il particolare dell’autista?».
Censurava anche te?
Ti racconto solo questa. Una volta mi manda a Trento a seguire le settimane sociali dei cattolici presiedute dal ferrigno cardinale Giuseppe Siri. L’arcivescovo di Genova spara a zero contro lo Stato. Io scrivo un pezzo con alcune osservazioni critiche. Il redattore incaricato di passarlo, Paolo Murialdi, porta la bozza dell’articolo a Missiroli. Il direttore comincia a leggere. «Questi preti! Che vergogna!» e taglia una frase. «Cervi ha perfettamente ragione!» e ne lima un’altra. «Cose dell’altro mondo! Ma come si permette il cardinale Siri?» e cancella gli aggettivi. Alla fine il servizio era stravolto. Torno a Milano, incontro Missiroli che sta salendo sull’auto in via Solferino e lui, come se niente fosse, da lontano si congratula così: «Dovevi gridare “Viva il 20 settembre!”».
Se tu fossi ancora direttore, che firme vorresti con te?
Escludendo quelle del Giornale, vorrei Filippo Facci, Gian Antonio Stella, Pierluigi Battista, Michele Brambilla, Francesco Merlo.
In che rapporti sei rimasto col tuo predecessore e poi successore Feltri?
Buoni, con una stima che m’illudo sia reciproca. Ammiro la sua capacità di attrarre e motivare i lettori, anche se certi risvolti non glieli invidio.
Com’è che a te il «Corriere» non ha srotolato il tappeto rosso per il ritorno e non ha messo a disposizione «La stanza» che fu di Montanelli?
Il mio talento giornalistico è senz’altro inferiore a quello di Indro.
Non dipenderà piuttosto dal fatto che chi lavora al «Giornale» diventa un reietto della professione?
Metti il dito nella piaga. Alle grandi testate nazionali sono approdati, anche di recente, i naufraghi di tante minori e a volte deliranti testatine di sinistra ed estrema sinistra. Nessuno fa una piega. Ma per arruolare a destra ci vuole coraggio, e a volte non basta nemmeno quello.
Il prossimo direttore del «Corriere» chi sarà?
Vorrei sbagliarmi, ma secondo l’andazzo corrente sarà a mio avviso un giornalista affermatosi per presenze televisive oltre che per meriti nella carta stampata. Alessandro Sallusti e Maurizio Belpietro, così come il loro maestro Feltri, sono fuori gara per marchio reazionario. Non escluderei invece uno come Beppe Severgnini, che scrive spigliatamente, piace alle signore ed è spesso in tv.
Chi è il giornalista italiano più fazioso?
Sfondo una porta aperta incoronando Marco Travaglio, fuoriclasse della sinistra settaria. Anche la destra settaria, devo riconoscerlo, ha validi campioni.
Hai sofferto nel vedere Mario Capanna invitato da Feltri a scrivere sul «tuo» giornale?
Capanna è un reduce innocuo. La sua firma mi ha lasciato indifferente.
Passeresti a «Libero», se te lo offrissero?
Mi è stato offerto e non ci sono andato. Forse per fedeltà, forse per pigrizia, di sicuro perché il mio non è più tempo di passaggi. Semmai di trapasso.
Nel 2001 ti chiesi: che cosa si prova ad arrivare a 80 anni? La risposta fu: «Nel complesso è triste». Avresti preferito fermarti prima di arrivare ai 90?
Francamente sì.
Stai per agguantare il traguardo del tuo amico Indro. Quando lo raggiunse, che cosa ti disse?
Negli ultimi tempi era d’un pessimismo assoluto. Non aveva più speranze. Non è che temesse la morte: aveva il terrore del degrado derivante dalla vecchiaia. «Quando non sarò più in grado d’andare da solo in bagno» mi ripeteva sempre «voglio che qualcuno mi aiuti a farla finita».
Qual è la peggiore umiliazione che hai subìto in questi 90 anni?
Quando i tedeschi accerchiarono me e il mio plotone, dopo un marasma di ordini contraddittori, e ci incolonnarono da prigionieri nella campagna a qualche decina di chilometri da Atene. Per questo dissento totalmente da chi, come il presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi, dà all’8 settembre 1943 il significato di un ritorno alla democrazia. No, quella data segnò la dissoluzione militare, morale e civile dell’Italia.
Ti manca tua moglie Dina?
Mi manca terribilmente. Considero una mala azione della sorte l’essere stato lasciato solo. La conobbi ad Atene, in quelle giornate convulse seguite all’8 settembre. Fui ospitato e protetto dalla sua famiglia, gente di gran cuore, come molti greci.
Sei sempre stato un laico incallito. La tentazione di credere che «dopo» ci sia un’altra vita non ti assale, ora che sei arrivato ai 90?
Certo che mi assale. Dina era molto devota e l’unica ragione che può sospingere anche me verso un ritorno alla religione è proprio questa tenue speranza di reincontrarla, almeno per ripeterle che le voglio bene. Ma non riesco ad avere fiducia nell’aldilà. Sono incoraggiato, in questo mio scetticismo, dal timore della morte di tanti che pure si dicono credenti e pertanto dovrebbero affrontarla con serenità.
Se dopo c’è il nulla, perché ti rincuora il fatto che sia già pronta da tempo la tua ultima dimora nel cimitero di Fontanella, tra Crema e Bergamo? Non ho mai visto nessuno prepararsi al niente.
Servirà a chi si ricorderà di me e vorrà portarmi un saluto e un fiore, come faccio io per mia moglie, mia madre, mio padre.
Ricordo male oppure qualche volta andavi a cena da un prete milanese?
Ricordi bene. È monsignor Ferdinando Rivolta, parroco emerito della chiesa dei santi Nereo e Achilleo.
E nemmeno monsignor Rivolta ce l’ha fatta a convertirti?
Se mai qualcuno mi convertirà, sarà lui. Ma il tempo stringe.