il Giornale, 17 novembre 2015
Altro che frasi da cioccolatino, Proust era il più abile indoratore di pillole amare di ogni tempo, perché tutto ciò che è bello finisce
Quando si parla di lui e della sua opera, si cita sempre la madeleine: per farla breve Marcel Proust è un biscotto. Fosse vissuto oggi, e a Roma anziché a Parigi, sarebbe un Oro Saiwa, e suonerebbe meno raffinato. Oppure ci si sofferma sullo snobismo aristocratico, sull’amore e le intermittenze del cuore, quasi fosse l’extended version di un invito al Rotary o di Bacio Perugina. Al contrario Alla ricerca del tempo perduto è l’opera più imponente e devastante scritta sul genere umano, difatti il lettore medio, e spesso molti critici, si fermano al primo volume, Un amore di Swann, e pochi arrivano all’ultimo, Il tempo ritrovato. Che comunque sembra un titolo consolatorio. Insomma, qualcosa è stato ritrovato, c’è un lieto fine. Col cavolo.
Così anche la raccolta dei Saggi proustiani, finalmente pubblicata in edizione integrale dal Saggiatore, curata da Mariolina Bongiovanni Bertini e Marco Piazza, rappresenta un percorso di formazione del successivo romanzo di formazione (e distruzione) che sarà la Recherche. Cronache mondane sulle feste di Mostesquieu, balli, serate di gala, elogi a conti e contesse, marchesi e marchese, dove Proust può dare l’idea di un dandy viziato e talvolta leccaculo. Riflessioni colte e raffinate su Monet, Moreau, Rembrandt, Stendhal, Chateaubriand, Tolstoj, e abbozzi inediti (per noi) del famoso Contro Sainte-Beuve, dove Proust prende una posizione contro la critica psicologica e biografica (Sainte-Beuve era un De Sanctis francese), perché la verità è nell’opera, non nell’uomo. E non mancano, in tanta eleganza, impietose stroncature di grandi autori, dove per esempio si considera l’opera di Balzac «antipatica, tutta smorfie, piena di cose ridicole». Contrapposta all’amore per Flaubert e per Baudelaire, e perfino a quello per la mamma, immancabile nei pensieri di Proust quanto in quelli del Narratore (senza per questo dar ragione a Sainte-Beuve).
Ma quello che è importante notare, come ho scritto io stesso nel mio saggio L’evidenza della cosa terribile, definito dal francesista Giuseppe Scaraffia «il miglior libro sulla Recherche scritto negli ultimi quindici anni» (cosa di cui mi sono offeso, prima quale c’è?), è che la tela di Proust, intessuta come un prezioso tappeto persiano, è una trappola costruita a arte. Proust è il più abile indoratore di pillole amare di ogni tempo. Ne è un esempio l’articolo Sentimenti filiali di un matricida, scritto da Proust il 30 gennaio del 1907, a due anni dalla morte della propria amata madre. È il commento di un caso di cronaca nera: Henri von Blarenberghe, un amico della famiglia Proust, uccide la propria madre per poi suicidarsi. Un pezzo che verrà letto dai redattori del Figaro come uno scandaloso elogio del matricidio, ma contiene una verità più profonda e drammatica, esemplificata nel finale: «In fondo noi invecchiamo, noi uccidiamo tutti coloro che ci amano con le inquietudini che procuriamo loro, con la stessa tormentosa tenerezza che ispiriamo e mettiamo in continuo allarme. Se in un corpo a noi caro sapessimo discernere il lento lavoro di distruzione perseguito dalla dolorosa tenerezza che lo anima, vedere gli occhi spenti, i capelli rimasti a lungo indomabilmente neri vinti come il resto e incanutiti, le arterie indurite, i reni occlusi, il cuore stanco, il passo più lento e appesantito forse chi sapesse discernere tutto questo, in uno di quei tardivi intervalli di lucidità concessi anche alle esistenze stregate dalle chimere, dacché perfino quella di Don Chisciotte ebbe il proprio, indietreggerebbe di fronte all’orrore della propria vita, come Henri von Blarenberghe dopo aver finito a pugnalate sua madre, e si getterebbe su un fucile per morire subito». L’autore si raccomandò con il giornale: «tagliate quello che volete, ma non il finale», e avvenne esattamente il contrario. Tanto quanto, nella lettura comune, si legge la Recherche come un’opera del cuore e dell’amore, dell’aristocrazia e del languido piacere del ricordo, senza considerare l’atroce finale del Tempo ritrovato, nel quale ogni illusione giovanile (la «chimera», appunto ), sprofonda nel disfacimento della materia e dei corpi (e anche qui, nell’articolo sui Sentimenti filiali, si noti, non una persona cara, bensì «un corpo a noi caro»). Un’osservazione simile al pensiero di Proust, sulla necessaria rimozione della realtà razionale necessaria per poterla vivere senza porvi fine anzitempo, si trova quasi un secolo prima in Leopardi, in un appunto dello Zibaldone del 1820: «Tolti i sentimenti religiosi, è una felice e naturale, ma vera e continua pazzia, il seguitar sempre a sperare, e a vivere, e contrarissimo alla ragione, la quale ci mostra troppo chiaro che non v’è speranza alcuna per noi.» Esattamente quanto Leopardi, Proust è incantato dalla vita, ma non è Roberto Benigni o Fabio Volo, e ne vede l’orrore sottostante, la spietatezza biologica dietro l’incanto della meraviglia. Perfino nei saggi, nella dolce mano di giovane sensibile, nasconde una pugnalata, proprio perché sensibile, proprio perché ama troppo la vita. Per questo che la felicità non esiste, è per questo che anche in amore diciamo sempre «per sempre», perché tutto ciò che è bello finisce: qualsiasi amore, qualsiasi affetto, qualsiasi gioia, ogni cosa svela a chiunque, anche solo per un attimo di lucidità, l’evidenza della cosa terribile.