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 2015  novembre 17 Martedì calendario

Intercettazioni a riconoscimento vocale. Ecco l’arma segreta dell’intelligence Usa, ma morto un boia se ne fa un altro

Nelle cronache ascoltate dopo la strage di Parigi, mi ha colpito un servizio di Radio24 che ha spiegato molto bene quale sia oggi uno degli strumenti più usati dall’intelligence degli Stati Uniti per combattere il terrorismo. Si tratta delle intercettazioni telefoniche basate sul riconoscimento vocale. Significa che se un leader del terrorismo parla in pubblico e la sua voce viene registrata, questa stessa voce viene usata come un’impronta digitale per individuarlo in tutte le telefonate che fa, in qualunque parte del mondo si trovi. Rispetto al metodo basato sulle impronte digitali, introdotto dal fondatore dell’Fbi, Edgar J. Hoover negli anni Trenta, e al riconoscimento facciale, il salto tecnologico in avanti è enorme. Ovviamente non tutti i servizi di intelligence dispongono di un sistema di intercettazioni così avanzato. Gli Usa, a quanto pare, ce l’hanno e ne fanno un ampio uso, intercettando non solo terroristi e criminali, ma anche leader politici e capi azienda in ogni parte del mondo.
Grazie al riconoscimento vocale, un bersaglio dell’intelligence può cambiare tutti i cellulari che vuole, ma appena parla al telefono, la sua voce viene riconosciuta dal sistema Usa di intercettazione, con tanto di geolocalizzazione su scala mondiale. Di fronte a simili metodi di spionaggio, largamente praticati dalla Nsa (National security agency), è inevitabile che sorgano seri problemi circa la violazione della privacy. Il caso della Merkel, il cui cellulare è stato intercettato dagli americani, ne è stato una dimostrazione clamorosa, anche se poi la vicenda è stata rapidamente insabbiata, anche a causa delle connivenze tra Usa e Germania nello spionaggio telefonico in Europa. Quando però ci sono di mezzo i terroristi, l’efficacia delle intercettazioni basate sul riconoscimento vocale può risultare decisiva, e parlare di privacy in simili casi sarebbe una stupidaggine, puro autolesionismo.
È probabile che questi sistemi di spionaggio telefonico sia stati usati per individuare l’imam dell’Isis che, pur essendo rinchiuso in un carcere della (troppo) tollerante Norvegia, dirigeva una rete di terroristi in tutta Europa, compresi alcuni militanti arrestati a Merano, in Italia. Una banda neutralizzata pochi giorni fa, prima che entrasse in azione. Lo stesso sistema, con ragionevole certezza, è stato impiegato per dare la caccia al boia dell’Isis, Jihadi John, che si era fatto filmare con il volto coperto, pensando di farla franca. I suoi proclami di sfida, in voce, sono stati però sufficienti per farne un target di primo livello: così, grazie all’identificazione vocale e alla geolocalizzazione, gli è stato spedito un drone con un missile che, a sentire gli americani, l’avrebbe ucciso. Un tentativo medesimo era stato compiuto in estate per colpire il califfo dell’Isis, Al Baghdadi, che però è sopravvissuto. Altri droni, sono stati usati dagli americani contro altri leader del terrorismo, con esiti altalenanti, dall’Iraq alla Siria e alla Libia.
Ma pensare che tutto ciò basti per sconfiggere il terrorismo islamico, sarebbe un’illusione. Vittorio Zucconi ha fatto notare che il drone che ha colpito il boia dell’Isis è costato 60 mila dollari, mentre il pugnale che il tagliagole brandiva nei suoi folli proclami costa appena cento dollari. Ragion per cui morto un boia, l’Isis ne troverà subito un altro, o addirittura altri cento. Da qui la domanda delle cento pistole che tutti si fanno in queste ore: come si può sconfiggere il terrorismo? Ieri mattina, su Radiouno, il quesito è stato posto anche alla pacifista Cecilia Strada di Emergency, dopo che quest’ultima aveva ricordato la figura di Valeria Solesin, uccisa a Parigi, volontaria di Emergency quando studiava a Venezia e a Trento. «Bisogna cambiare i metodi usati negli ultimi 15 anni», ha risposto. «Quanti Paesi occidentali, che oggi si dichiarano in guerra contro il califfato, hanno venduto armi che ora sono in mano ai terroristi?». Già, le armi. E che dire del petrolio venduto dall’Isis? Per quali canali e tramiti è finito in altri Paesi, dall’Europa alla Cina, alimentando le finanze dei tagliagole? Molti terroristi si arruolano perché attirato da un buon stipendio. È stato così anche per i volontari russi che fino a pochi mesi fa combattevano nel Donbass, e ora sono andati in Siria, sempre stipendiati da Putin.
Ecco dunque un punto chiave: colpire le finanze dell’Isis, per togliere una parte dell’acqua in cui nuota il terrorismo, è fondamentale. Il tema è stato discusso nel G20 in Turchia, ma con un tasso di ipocrisia vergognoso: basti pensare che vi si è detto favorevole Erdogan, che finora ha agevolato l’Isis pur di combattere i curdi. Ma se ora Ankara dovesse colpire gli asset finanziari del terrore, che probabilmente consce meglio di altri, sarebbe un cambio di passo positivo. Molto più difficile e di lunga durata sarà invece la battaglia culturale e politica per sconfiggere il fondamentalismo islamico, che costituisce la negazione della civiltà occidentale, un cancro da estirpare prima che sia troppo tardi.