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 2015  novembre 17 Martedì calendario

Il maratoneta Di Cecco sospeso due anni per doping è assolto dal tribunale di Pescara. La sentenza mette in crisi il nostro sistema di controllo

Una succinta sentenza (tre paginette) di un tribunale di provincia (Pescara), appena passata in giudicato, mette in crisi l’antidoping italiano.
È la sentenza 1968/2015 con cui il giudice Francesco Marino assolve perché il fatto non sussiste – «non potendosi superare il dubbio sulla penale responsabilità dell’imputato» – l’ex azzurro Alberico Di Cecco, positivo all’Epo nell’ottobre 2008 alla maratona di Carpi. Nono ai Giochi olimpici di Atene vinti da Stefano Baldini, il carabiniere abruzzese Di Cecco era un buon interprete della 42 chilometri. Positività perfetta la sua, ha testimoniato in aula Francesco Botrè, direttore del laboratorio Coni dell’Acquacetosa. A regola d’arte la catena d’identificazione e conservazione delle urine, conforme l’esito di analisi e contro analisi, validate anche dal laboratorio parigino di Châtenay Malabry. Un risultato che ha portato il Coni a squalificare per due anni l’atleta trasmettendo gli atti al tribunale penale. In aula a Pescara ai consulenti di Di Cecco è riuscito un miracolo: smontare una procedura scientifica validata a livello mondiale. I periti Piccioni e Simula hanno costruito un mini passaporto biologico dell’atleta convincendo il giudice (ma anche il pubblico ministero, che ha chiesto l’archiviazione) che le prestazioni non erano state alterate e Di Cecco non aveva assunto Epo farmacologica, ma la sostanza era stata prodotta dal suo organismo, a dispetto dell’inequivocabile referto del controllo.
Il professor Guido Valori, che rappresenta il Coni nei casi di doping, è sconcertato: «Il processo di Pescara si è aperto in base alla positività oggettiva. Il giudice è entrato in un merito che non gli competeva: doveva prendere atto che l’Epo c’era, non ragionare sulla sua permanenza teorica o meno nelle urine. Se ti trovano positivo a una sostanza è perché l’hai presa». Valori annuncia un ricorso che però appare improbabile perché non ci sarà appello e il Coni, colpevolmente, non si era costituito parte civile, come del resto la Federatletica. Tommaso Marchese, difensore di Di Cecco, è il legale che fece assolvere Pep Guardiola dall’accusa di essersi dopato col nandrolone, quando giocava nel Brescia, ottenendo la riforma del giudizio sportivo. «La giustizia sportiva ha norme che non offrono garanzie all’imputato. Basti pensare che l’analisi del “campione A”, accertamento tecnico non ripetibile, viene eseguita dal laboratorio Coni senza controlli sul suo operato. Siamo l’unico Paese in cui doparsi è reato penale: è giusto che l’imputato abbia garanzie forti come questa sentenza domanda. Non so se chiederemo la riforma della sentenza sportiva: con Guardiola fu più facile perché dimostrammo l’insussistenza totale delle prove».
Il caso di Di Cecco non è l’unico a preoccupare il Coni, che attende (qui come parte civile) l’appello contro l’assoluzione del ciclista Davide Rebellin, positivo al Cera (altro tipo di Epo) ai Giochi olimpici di Pechino. Rebellin è assistito da Antonio De Silvestri, che insegna diritto sportivo a Ca’ Foscari: «Davide è stato assolto perché l’ordinamento penale condanna solo per colpe provate oltre ogni ragionevole dubbio, mentre quello sportivo si accontenta di “una ragionevole certezza”. Con Rebellin di dubbi sulla catena di conservazione dei campioni di urina ce ne sono stati molti. Il Coni ha perso in primo grado e perderà anche in appello, se non interverrà la prescrizione. Ho però detto a Rebellin che può scordarsi di riavere la medaglia olimpica: riformare una sentenza del Tas è impossibile».
Morale della favola: in Italia chi ammette il doping viene sempre condannato in sede penale, perché alla prova analitica si aggiunge la sua confessione. Chi invece si ostina a negare – a dispetto di referti analitici inequivocabili – può farla franca.