Corriere della Sera, 17 novembre 2015
Quinta recessione del Giappone. Fallimento della cosiddetta Abenomics. Dove si dimostra che metter fine all’austerità non è la soluzione
Il Giappone torna in recessione tecnica (due trimestri consecutivi in discesa) ad appena sei mesi dalla fine dell’ultima: nel terzo trimestre il prodotto interno lordo (Pil) è sceso dello 0,2% sui tre mesi precedenti e dello 0,8% su base annua, dopo un calo congiunturale (corretto) dello 0,2% e dello 0,7% annualizzato tra aprile e giugno. È la quinta recessione del Sol Levante in 7 anni, la seconda da quando Shinzo Abe è diventato primo ministro, nel dicembre del 2012, sollevando dubbi sull’efficacia della sua strategia, la cosiddetta Abenomics, per far ripartire la crescita e far uscire Tokyo da oltre vent’anni di deflazione.
In Borsa l’indice Nikkei ha aperto in brusca caduta, ma pesava anche l’incertezza legata agli attentati terroristici di venerdì sera a Parigi, e Tokyo era il primo mercato a riaprire dopo il weekend di sangue. A fine giornata, però, le perdite sono state tutto sommato contenute (-1,04% la chiusura), perché a sostenere il mercato ha contribuito la convinzione che il governo possa lanciare un nuovo piano di stimoli. Domani e giovedì si riunisce la Bank of Japan, la banca centrale, e il governatore Haruhiko Kuroda potrebbe dare il semaforo verde a un nuovo round di quantitative easing, con l’acquisto di titoli sul mercato.
L’ultimo dato sulla salute dell’economia conferma che il malato Giappone non riesce a rimettersi in piedi stabilmente da almeno un quarto di secolo. Il tasso di crescita è stato in media dello 0,49% dal 1980 al 2015, con un picco storico del 3,2% nel secondo trimestre del 1990 e una flessione record di -4% nei primi 3 mesi del 2009.
Ci sono alcune note positive. Tra giugno e settembre i consumi, che rappresentano il 60% del Pil, hanno ricominciato a crescere (+0,5% sui 3 mesi precedenti, dopo una flessione dello 0,6% nel secondo trimestre), e l’export è aumentato del 2,6%. Ma questi due motori non sono bastati a cambiare l’umore delle aziende, che hanno preferito usare le scorte di magazzino invece di far ripartire gli investimenti, caduti dell’1,3% (sono in crescita dell’1,9% solo quelli per l’edilizia residenziale), a dispetto del forte aumento dei profitti. Né i salari hanno mostrato incrementi significativi, nonostante la disoccupazione sia ai minimi (3,4% a settembre) e questo contribuisce a mantenere bassa l’inflazione, che resta ferma allo 0,2%.
Il problema? A spaventare non è soltanto il rallentamento della Cina, il maggior partner commerciale del Sol Levante, ma anche l’invecchiamento della popolazione. In Giappone la situazione demografica appare più grave che altrove: è il Paese con il più basso tasso di natalità mondiale a fronte di uno dei più alti tassi di longevità, ma è chiuso quasi totalmente all’immigrazione straniera. Le previsioni indicano che la popolazione si ridurrà da 127,5 a 97 milioni nel 2015.
Eppure, nonostante la nuova recessione tecnica, il governo lancia segnali di ottimismo. Sebbene non abbia finora portato i risultati sperati con le sue 3 frecce (stimolo fiscale, allentamento monetario e riforme strutturali), il mese scorso il premier Abe ha rivisto e aggiornato la sua strategia, rinominandola Abenomics 2.0. L’attesa è per un nuovo programma di politiche sociali volte ad aiutare soprattutto le donne, che rinunciano al lavoro per occuparsi dei figli o dei genitori (o suoceri) anziani. L’obiettivo è di aumentare la partecipazione a lavorare da parte della popolazione attiva. È atteso inoltre un intervento per aumentare la produttività in agricoltura, anche alla luce del nuovo Trattato trans-pacifico (Ttp), firmato il 5 ottobre, che liberalizza il commercio tra gli Stati Uniti e 11 Paesi asiatici, tra cui il Giappone. I consumatori nipponici sono tra i grandi beneficiari visti i dazi e le tariffe esorbitanti applicati a molti prodotti stranieri, inclusi i generi alimentari.